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Categoria: Esteri
di mazzetta

Desta sconcerto il recente insorgere dei tibetani, ma ancora di più desta sconcerto come è stato accolto in Occidente e nel nostro paese in particolare. Quando si arriva alla politica estera la maggior parte dei nostri commentatori e politici affronta il tema schierandosi semplicemente lungo evidenti linee che hanno a che fare più con la tifoseria che con il giudizio. Anche nel caso della rivolta tibetana si ricade nel desolante deja-vu della propaganda, in questo caso anti-cinese. Si parla di stragi, di genocidio, ma non si sono visti morti fino ad ora; non si sono visti per causa della censura cinese, o non si sono visti perché non c'erano morti da mostrare? Poco importa, per l'Occidente la verità risiede dalle parti di Radio Free Tibet (costituita e finanziata dai servizi americani) e nelle voci degli artisti che da Hollywood si battono per la causa tibetana. Causa peraltro già persa, visto che il Tibet è riconosciuto parte integrante della Cina da tutti i paesi del mondo. Il caso quindi tratta di una ribellione interna sostenuta dal cosiddetto “mondo libero” contro l'oppressore “comunista”, almeno a sentire chi cavalca la tigre in questi giorni. Le cose stanno diversamente, la rivolta tibetana è molto simile a quella degli Uyguri dello Xing-Jang: si chiede cioè maggior rispetto per le usanze locali e una diversa ripartizione del reddito nazionale, in gran parte controllato da cinesi di etnia Han. Nello Xing-Jang gli autonomisti Uyguri protestano, mettono le bombe, fanno di tutto, ma non se li calcola nessuno; loro sono “islamici”. Anche nel resto della Cina le cose non vanno troppo bene, lo dicono le 84.000 rivolte censite nell'ultimo anno. Rivolte violente come quelle tibetane, represse di solito bruscamente, ma niente spari indiscriminati sulla folla; infatti non si sono visti cadaveri nelle strade di Lhasa e non si è saputo il nome di un solo martire tibetano. La possibilità che i cinesi abbiano ucciso qualche rivoltoso è nelle cose, ma di qui a parlare di stragi ne corre.

Stranamente in Occidente contano solo le rivolte dei tibetani e la repressione dei tibetani, un tempo sostenuti in funzione anticomunista (la Cia addestrava un esercito rivoluzionario tibetano, dicono i documenti del Dipartimento di Stato americano) dagli Stati Uniti e ora nel cuore glamourous di attori e cantanti sedotti dal buddismo e dal Dalai Lama. Anche oggi però il Tibet torna utile, non tanto per mettere all'indice la Cina, quanto per puntellare l'immagine di una superiorità morale occidentale ormai incredibile ai più. Eppure lo stesso Dalai Lama ha invitato i tibetani a rinunciare alla violenza, ma per le nostre anime belle i tibetani, evidentemente, hanno ragione ad aprire la caccia al cinese e a bruciare i negozi e le attività dei cinesi, offrendo il pretesto per la repressione ad un paese che non è mai stato tenero con i tentativi di sovversione.

Nel caso del Tibet, singolare strabismo, abbiamo un Occidente “liberal-libertario” che sostiene un movimento clericale semplicemente perché utile alla propria politica. L'Occidente laico e modernista che supera le rivendicazioni dello stesso Dalai Lama fa un po' ridere, anche perché la storia del Tibet è quella di una colonizzazione già vista per mano bianca. Una regione desolata che viene “civilizzata” dalla parte più moderna del paese, con i tibetani destinati a cedere di fronte al “progresso” come ai tempi successe agli indiani d'America.

Il paragone è a sfavore dei pellerossa in realtà, perché il Tibet era molto più arretrato socialmente di quanto non lo fossero gli indiani d'America. In Tibet, prima dell'arrivo dei cinesi, oltre il novanta per cento della popolazione era in schiavitù, a dominare erano le caste nobiliari in combutta con i monaci (sempre di estrazione aristocratica) e con la teocrazia tibetana. Nel 1950 il Dalai Lama dell'epoca regnava su un paese nel quale la gran parte della popolazione era schiava, un paese nel quale alle donne era vietata l'istruzione (per non parlare del voto che non era proprio previsto per nessuno) e che si trovava in fondo a tutte le classifiche di sviluppo umano, con strutture sanitarie a zero e con un'aspettativa di vita orribile e brevissima. Tutto questo lo sanno anche i tibetani, che come tanti “colonizzati” si trovano divisi tra la gratitudine per i progressi portati dai cinesi e l'evidenza per la quale il grosso degli affari è in mano dei colonizzatori; un problema che non hanno solo i tibetani in Cina, ma molti altre etnie in giro per il mondo.

Adesso che la rivolta è in corso è tutto un rincorrersi di notizie sempre più allarmanti quanto prive di riscontri; anche i tibetani possiedono telefonini e videocamere, ma non si è vista una sola immagine delle carneficine annunciate dai nostri eroi; può essere anche “merito” della censura cinese, ma in altre occasioni qualcosa è filtrato, mentre in questo caso non c'è una sola immagine delle presunte stragi per mano cinese. Si sono visti invece negozi dati alle fiamme e cinesi aggrediti, oggi si parla di un intero mercato dato alle fiamme e di altri scontri con la polizia, ma non si hanno riscontri indipendenti. Riscontri che invece ci sono per le bastonature ricevute dai tibetani in Nepal e India, che non destano scandalo anche se lì non avevano dato fuoco a nulla.

La realtà ci dice che i tibetani sono soli contro la repressione cinese e che il loro attivismo è semplicemente sciacallato da personaggi che quotidianamente sostengono repressioni del genere, e anche peggiori, quando a reprimere sono governi considerati “amici”. Gran parte di questi agitatori politici non sa nemmeno di che parla, si limita a ripetere automaticamente stereotipi e notizie spesso già dimostrate false. Nel caso della Cina tutto questo è molto pericoloso, perché la Cina è ancora nel mezzo di una transizione, gli esiti della quale non sono per nulla scontati. Esibire questo genere di doppio standard nei confronti dei cinesi, può servire solo ad alimentare un già esistente nazionalismo cinese. Questione molto pericolosa, e non solo perché la Cina è una potenza, ma anche perché nel 2050 sarà un paese con un eccesso di popolazione maschile che storicamente non promette nulla di buono.

Il prezzo della propaganda di questi giorni potrebbe essere pagato tra qualche anno e sarà il prezzo dovuto ai soliti espedienti di un potere che può sopravvivere solo in presenza di un nemico esterno, che legittimi i delitti delle classi dirigenti in nome della minaccia esterna. Chi in Occidente lavora oggi alla creazione del nemico cinese, avrà domani la responsabilità nel caso del sorgere di una Cina nazionalista e ostile verso l'esterno circostanza che farebbe brindare i nostri eroi alla “armiamoci e partite” e le grandi corporation che costruiscono armi, ma che rimarrebbe una circostanza assolutamente nefasta per tutto il genere umano. Un pericolo evitabile esercitando il discernimento e stando lontani dal tifo preconcetto, avendo come faro la lettura del reale ed il rifiuto della propaganda interessata. Si possono supportare le istanze dei tibetani anche senza ricorrere alle falsità e alle chiamate alle armi; ne guadagneranno loro, ne guadagneremo noi.