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Categoria: Esteri
di Elena Ferrara

Pechino sostiene che a “sollecitare” ed “organizzare” le manifestazioni anticinesi in corso a Lhasa è Tenzin Gyatso, il Dalai Lama (1935) che ha gettato via la maschera di uomo che ha sempre cercato, a parole, di accreditarsi come disposto alla collaborazione e all’avvio di processi distensivi. Ma con questa nuova spirale di violenze ed attacchi il religioso - esule in India - sta rivelando il suo vero volto di nemico della Cina e dell’ordine costituzionale. E’ questa, in sintesi, la posizione ufficiale che il governo cinese illustra alle diplomazie di tutto in mondo facendo anche rilevare, con una nota del portavoce del ministero degli Esteri Liu Janchao, che Pechino “proteggerà in modo risoluto la sovranità nazionale e l'integrità territoriale". E questo vuol dire che non ci saranno trattative con quelle forze tibetane che rivendicano l’autonomia nazionale. In tale contesto le fonti ufficiali cinesi ricordano che quando il “Tetto del mondo” fu occupato nel 1903 dalle truppe britanniche i dirigenti di Lasha si appoggiarono agli inglesi per contrastare la Cina. Situazione che fu capovolta nel 1950 quando le truppe di Pechino entrarono in Tibet instaurando un nuovo potere fedele, appunto, alla Cina. Da quel momento di “liberazione pacifica” (come venne allora chiamata l’operazione militare dalla pubblicistica ufficiale di Pechino) si registrò il trasferimento di popolazioni cinesi nella regione per diluire la componente etnica tibetana. Ma la cultura tradizionale, nonostante le azioni di cinesizzazione si è rinforzata, anche al di fuori della regione, con il buddismo e il taoismo che stanno conoscendo una diffusione di massa in tutta la Cina. E per quanto riguarda i tibetani, questo si traduce nella conservazione di una loro forte identità culturale. Ora - mentre le lotte di strada continuano in quasi tutto il territorio - il governatore del Tibet Qiangba Puncog accusa i sostenitori del Dalai Lama di fomentare la rivolta. “In quest’azione di destabilizzazione - dice l’esponente fedele a Pechino - si distinguono separatisti e fuorilegge con atti estremi che hanno come scopo quello di attirare l'attenzione sulla Cina nel periodo che precede i Giochi Olimpici”.

Ed è sulle eventualità di sabotare le gare del prossimo agosto (una scadenza di importanza epocale con gran parte delle energie del paese tese verso la realizzazione di una manifestazione di successo) che si discute anche nelle diplomazie occidentali dove cresce l’imbarazzo a mano a mano che si diffondono le notizie dell’ampiezza della rivolta tibetana e della violenza della repressione cinese. Nelle capitali del mondo si discute quindi del fatto che i Giochi, negli auspici della dirigenza cinese, dovrebbero costituire la vetrina universale in cui mostrare il nucleo del messaggio di Pechino, la radice del suo soft power. Tutto espresso in un concetto chiaro quanto, per molti, allettante: e cioè che crescita economica ed autoritarismo politico possono convivere.

L'Unione Europea, che condanna le violenze, sostiene che un boicottaggio delle Olimpiadi non costituirebbe una risposta adeguata. La Russia, che si augura che la Cina farà tutto il necessario per limitare le "azioni illegali", sostiene che le relazioni del governo di Pechino con il Dalai Lama sono "una questione interna" e, di conseguenza, critica i tentativi di "politicizzare" il prossimo appuntamento olimpico. Risponde il Primo ministro dell'amministrazione tibetana in esilio, Samdhong Rinpo: ''Noi chiediamo l'intervento della comunità internazionale e delle Nazioni Unite affinchè possano inviare in Tibet delle delegazioni o delle commissioni''. Si fa viva anche Condoleeza Rice - segretario di Stato degli Usa - che lancia un appello alle autorità cinesi affinchè instaurino un dialogo con il leader spirituale in esilio. ''In tutti questi anni - dichiara - abbiamo esortato la Cina al dialogo con il Dalai Lama, una figura autorevole e non separatista. Spero che Pechino trovi un modo per stabilire una comunicazione con lui e spero anche che insieme possano davvero trovare una strada per discutere dell'attuale crisi”.

L’eventualità del boicottaggio dei Giochi, comunque, non può essere esclusa aprioristicamente, tanto più se la repressione continuerà seguendo quella strada imboccata ai tempi della rivolta di piazza Tienanmen. E sul fuoco degli attacchi e delle polemiche soffiano forte i socialisti francesi che con il loro leader, Francois Hollande, dichiarano di considerare l'ipotesi di “non mandare la Francia a Pechino''. Ma vengono avanti anche posizioni diverse. Con il Comitato Olimpico australiano che - con un intervento del suo presidente John Coates - annuncia che non boicotterà le Olimpiadi perchè ad essere danneggiati sarebbero solo gli atleti ed anche per il fatto che i Giochi, mettendo la Cina sotto i riflettori internazionali, dovranno piuttosto incoraggiare il dibattito attorno a temi di interesse mondiale producendo, come diretta reazione, un effetto positivo, quanto a responsabilità e chiarezza di intenti”.

Intanto - con il Presidente Napolitano che auspica una necessaria iniziativa dell'Ue - si staglia la posizione del Vaticano. Con la Cei che, difendendo il Papa accusato di non aver fatto cenno alla situazione tibetana, all’Angelus dei giorni scorsi, fa notare che è ''difficile pensare ad una svista e molto più facile è riflettere sulla difficoltà di un rapporto già di per sè difficile con Pechino''. La Cei ricorda che il dialogo è necessario da parte della Santa Sede ''per rendere meno pesante la situazione della Chiesa nel grande Paese'' dal momento che la comunità cattolica cinese è divisa ''tra una Chiesa riconosciuta dal regime, e per questo pubblica, ed una che vive in clandestinità, perchè fedele a Roma''. Una divisione che il papa ha chiesto di superare nella sua lettera del luglio dello scorso anno ai cattolici cinesi. La Cei, a sottolineare il significato della preghiera in cinese pronunciata alla messa romana della domenica, fa rilevare che ''nella Chiesa contano molto anche i silenzi, le preghiere, la scelta di privilegiare una lingua piuttosto che un'altra''. Sulle tante notizie che arrivano dal Tibet si fanno più forti le voci di quegli ambienti diplomatici, i quali sostengono che la Cina olimpica non si può permettere una politica repressiva proprio perchè, ora, vuole cancellare dalla storia le dure pagine del passato per legittimare il Paese come una superpotenza normale.

Infine, sul fronte delle notizie che arrivano da Lhasa e mentre è scaduto il conto alla rovescia dell’ultimatum di Pechino, si contano le vittime delle strade del Tibet. Sarebbero centinaia i morti nelle manifestazioni di massa iniziate il 10 marzo. Ma le autorità cinesi sostengono che “le forze di sicurezza non hanno fatto alcun uso di armi letali. Nessuna arma da fuoco ha sparato e l'esercito non è coinvolto''. Solo manganelli e gas lacrimogeni? Intanto l’incendio sul “Tetto del mondo” continua. La tensione cresce e non si sa se tutto finirà tragicamente come a Tienamen dando vita ad un nuovo e sconvolgente “Grande gioco” che questa volta potrebbe essere di ordine planetario.