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Categoria: Esteri
di Fabrizio Casari

L’Iraq, da cinque anni, non è più l’Iraq. Gli Usa, dopo cinque anni di guerra, non sono più gli Usa. Cinque anni di guerra possono essere descritti come lunghissimi, ingiusti, feroci, inutili agli scopi dichiarati, utili invece a quelli non dichiarati. La guerra in Iraq, infatti, è la rappresentazione per eccellenza di una guerra imperiale venduta come una crociata liberatrice, una guerra totale venduta politicamente e mediaticamente usando un’immensa menzogna. Quella che raccontava di guerra al terrorismo e armi di distruzione di massa: inesistenti le seconde, inventata la prima. Non c’erano armi di distruzione di massa e non c’era il terrorismo, mentre la sete di accaparramento del petrolio iracheno s’incrociava abilmente con quella delle compagnie petrolifere e delle aziende di contractors. Ma, soprattutto, cinque anni dopo, ci sono centomila iracheni uccisi, quattromila statunitensi morti, seimila reduci suicidi, tre trilioni di dollari di spese militari (ed è una stima per difetto), circa cinquecento miliardi di dollari di spese previste per l’assistenza psicologica ai reduci. E l’Iraq è anche la vergogna delle Guantanamo e dei voli segreti, pronti a trasportare i prigionieri verso celle di tortura lontane dalle telecamere (anche da quelle “embedded”); della fine dell’habeas corpus e del diritto alla difesa degli imputati, con il “Patrioct act” che ha sancito la morte del diritto civile e penale statunitense. Senza dimenticare, poi, il fosforo bianco di Falluja, degno erede, quaranta anni dopo, del napalm generosamente diffuso dagli Usa sulle montagne e sui villaggi vietnamiti.

L’Iraq è stato – ed è ancora – la risposta aggressiva e disperata di una superpotenza che cerca con la forza e con il saccheggio delle risorse energetiche di mantenere a ogni costo una leadership politica e una governance militare sul pianeta, in un momento in cui la sua definitiva crisi di ruolo non gli consente di usare altri modi per esercitarla. Ammesso che mai, nella sua storia, abbia avuto strategie di dominio diverse. L’Iraq, come l’Afghanistan, ha però rappresentato agli occhi dell’opinione pubblica mondiale il declino definitivo dell’Impero a stelle e strisce, divenuto ormai l’ostacolo principale a una governance multipolare capace di guidare un pianeta globalizzato.

L’Iraq ha però rappresentato anche la cerimonia dell’estrema unzione per le Nazioni Unite. La sceneggiata infamante delle finte prove, le pressioni prima e la noncuranza poi dei rapporti degli ispettori inviati a Baghdad, i rastrellamenti e i processi-farsa ai capi del regime, la concessione alle vendette tribali con l’impiccagione di Saddam Hussein e di alcuni dei suoi, hanno ridotto la comunità internazionale a teatrino della rappresentazione hollywoodiana di una guerra che ha avuto nella sua finzione mediatica e spettacolare la coperta con la quale coprire la definitiva uscita di scena del diritto internazionale.

Parallelamente, la guerra all’Iraq ha anche significato la sconfitta storica, epocale, del pacifismo, nato con il Vietnam e finito con Baghdad. Quella che il New York Times definì “la seconda superpotenza del mondo”, nulla ha potuto di fronte ai colossali interessi che su quella guerra si misuravano. La sconfitta del pacifismo ha tracciato la triste linea nera della morte della ragione, riducendo all’impotenza la speranza ed elevando ad opportunismo politico la vigliaccheria di chi poteva opporsi e non lo ha fatto, prima tra tutte l’Unione Europea.

Perché per l’Europa, l’Iraq ha sì significato un timido vagito di autonomia, anche se solo in lingua spagnola e con qualche accento in francese, ma ha confermato però, nella sostanza, l’inclinazione naturale al nanismo politico del vecchio continente verso Washington. E per l’Italia, in particolare, oltre a tutto questo, l’Iraq è anche Nassiriya; i suoi, i nostri morti; agnelli sacrificali sull’altare dell’obbedienza dovuta, mandati a morire dal vergognoso governo Berlusconi che sull’Iraq e sul coinvolgimento italiano nella guerra della famiglia Bush ha speso l’ennesima bugia del suo già ampio repertorio.

Sullo sfondo, una regione tormentata e destabilizzata, la penetrazione definitiva di quell’integralismo islamico che proprio l’Iraq, insieme a Siria e Libia conteneva e respingeva, con il conseguente rafforzamento di al-Qaeda e la fine di ogni ipotesi di soluzione politica alla grande babele mediorientale. La famiglia Bush, una monarchia feudale che da oltre trentacinque anni tiene sotto le sue grinfie cleptomani gli Stati Uniti, ha visto aumentare smisuratamente le sue ricchezze e la sua fama. È presto per dire se sarà Barack Obama o Hillary Clinton, o addirittura John McCain a sostituire l’analfabeta inquilino della Casa Bianca. Ma la sua uscita, chiunque sia ad accomiatarlo, non lenirà i danni causati dagli ultimi otto anni di guerre, distruzione del diritto, recessione economica e definitivo sfascio morale di quello che una volta era l’Impero. Impero che, nel suo ultimo scatto di reni, riuscirà comunque ad evitare che George W. Bush vada nel luogo dove meriterebbe: un tribunale penale internazionale per i crimini di guerra.