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di Michele Paris

Le primarie vinte da Hillary Clinton lo scorso 4 marzo in Ohio, Texas e Rhode Island, proprio quando l’ex First Lady sembrava ormai sull’orlo della sconfitta, sembrano avere segnato una svolta importante nella corsa alla nomination in casa democratica, quanto meno nei toni della campagna elettorale e nei temi al centro del dibattito. Se la Senatrice di New York ha sostanzialmente centrato l’obiettivo di interrompere il cammino travolgente di Barack Obama seguito alle votazioni di febbraio sollevando molti dubbi sulla sua presunta inesperienza e sulle effettive chances di prevalere su un candidato repubblicano capace di attrarre una fetta consistente di elettorato indipendente come John McCain, il suo percorso verso la conquista della nomination rimane estremamente complicato alla luce del distacco nel numero dei delegati che ancora la divide dal suo avversario. Con 10 primarie ancora in programma da qui ai primi di giugno, con 689 delegati da assegnare, ed uno scenario in grande fermento in seguito al discorso di Obama sulla questione razziale negli USA e alla quasi certezza della mancata ripetizione delle consultazioni in Florida e Michigan, gli equilibri potrebbero però cambiare non poco in vista della Convention di fine agosto quando con ogni probabilità i Superdelegati del Partito Democratico saranno chiamati a mettere la parola fine sul testa a testa tra Hillary e Obama. Il discorso di Obama Costretto a prendere le distanze dal suo consigliere spirituale ed ex pastore della Trinity United Church of Christ a cui appartiene, il reverendo Jeremiah A. Wright jr., colpevole di aver tenuto sermoni infuocati nei quali denunciava la società americana come irrimediabilmente razzista e corrotta, Barack Obama non si è curato delle perplessità manifestate da alcuni membri del suo staff decidendo di affrontare in un discorso ufficiale uno dei temi più delicati per un politico americano, la questione razziale e le sue implicazioni con la religione e il dettato costituzionale. Consapevole di rischiare molto, forse addirittura la stessa possibilità di competere per la nomination, il Senatore dell’Illinois ha messo da parte quel messaggio di unità e conciliazione che gli aveva permesso di irrompere sulla scena politica nazionale con un successo inaspettato per confrontarsi coraggiosamente con le divisioni e le frustrazioni legate alle questioni razziali che tuttora persistono nella società americana.

In un discorso durato 37 minuti tenuto significativamente presso il National Constitution Center di Philadelphia, Obama ha preso le distanze in maniera netta dalle posizioni espresse dal reverendo Wright, ma allo stesso tempo ha ribadito la sua vicinanza ad uomo che lo ha indirizzato al Cristianesimo, che ha celebrato il suo matrimonio e ha tenuto a battesimo i suoi figli, cercando di spiegare agli elettori bianchi la rabbia e la frustrazione che stanno dietro le sue parole e a quelli di colore le paure e il risentimento che vivono ancora oggi molti bianchi in un paese che affonda le proprie radici nella schiavitù e nel razzismo. Anche se le reazioni di entrambe le parti politiche e del mondo culturale d’oltreoceano sono state di quasi unanime apprezzamento per lo spessore di un discorso che ha pochi precedenti nella storia politica statunitense, solo il responso delle prossime primarie potrà rivelare in quale misura esso sarà servito a far dimenticare le parole del reverendo Wright, le cui immagini con Obama in ascolto tra il pubblico stanno imperversando da giorni in rete e sulle televisioni americane.

Florida e Michigan Molte delle speranze di Hillary Rodham Clinton di colmare, o per lo meno ridurre significativamente, il divario che la separa nel conteggio dei delegati da Barack Obama risiedeva in una eventuale ripetizione delle primarie negli Stati di Florida e Michigan dove gli elettori si erano in realtà già recati alle urne lo scorso mese di gennaio. I vertici del Partito Democratico avevano stabilito in anticipo di invalidare quelle consultazioni, con la conseguente mancata assegnazione dei rispettivi delegati, perché svoltesi in anticipo rispetto al calendario ufficiale. In accordo con il proprio Partito, tutti i candidati avevano così deciso di non fare campagna elettorale in nessuno dei due Stati e, addirittura, nel Michigan sulle schede figurava il solo nome di Hillary Clinton.

Con il persistere dell’equilibrio nella corsa alla nomination, si sono moltiplicate le voci di quanti, nel clan Clinton e non solo, chiedevano un nuovo scrutinio in Florida e in Michigan per garantire il diritto di voto in queste primarie ad un numero consistente di elettori i quali, in caso contrario, a novembre potrebbero voltare le spalle ai democratici consegnando il loro Stato al candidato repubblicano. Dopo settimane di discussioni circa i metodi più opportuni e meno dispendiosi da adottare per risolvere la questione, i dirigenti locali del Partito e i responsabili delle campagne elettorali dei due candidati alla nomination non hanno però trovato alcun accordo e allo stato attuale delle cose tutto lascia presagire che i delegati di questi due Stati resteranno fuori dalla porta della Convention di Denver.

Tra difficoltà nella verifica dell’autenticità delle firme in caso di votazione eseguita per posta, costi eccessivi di una pura e semplice ripetizione delle primarie e soprattutto ragioni di opportunità politica, gli scrupoli di Hillary affinché fossero garantite le libertà di espressione degli elettori di Florida e Michigan saranno alla fine destinati all’insuccesso. Né d’altra parte sarà facile trovare un’intesa, come pure alcuni membri dello staff clintoniano hanno suggerito, nella proposta di ratificare le primarie secondo i risultati di gennaio (favorevoli entrambi alla Clinton) oppure, secondo quanto sostiene Obama, dividendo in due parti uguali il numero dei delegati in palio. Se poi il motivo di tanta sollecitudine circa tale questione, in particolare da parte di quanti sostengono la candidatura di Hillary, è esclusivamente il desiderio di vedere rispettati i diritti degli elettori, risulta difficile capire il motivo per cui non sia stata trovata precedentemente una soluzione diversa dall’invalidamento delle primarie tenutesi a gennaio contro le regole del Partito.

Il calendario Il prossimo appuntamento con gli elettori per i due candidati democratici è fissato per il 22 aprile quando si voterà in Pennsylvania, vale a dire lo Stato con il maggior numero di delegati in palio (188) tra i dieci che ancora devono esprimersi. Tutti i sondaggi finora commissionati dai media americani mostrano come il vantaggio di Hillary Clinton in Pennsylvania, dove la composizione dell’elettorato democratico è molto simile a quella dell’Ohio, sia incolmabile anche se Obama potrebbe comunque bilanciare un’eventuale sconfitta prevalendo nei popolosi dintorni di Philadelphia dove è numerosa la popolazione di colore. Quel che è certo in ogni caso è che le primarie nel “Keystone State” saranno tutt’altro che decisive ai fini della nomination, per questo motivo i due candidati già da qualche giorno hanno cominciato le rispettive campagne elettorali negli Stati che terranno le primarie a maggio.

Dopo la Pennsylvania, il calendario democratico prevede il 3 maggio le consultazioni nella minuscola isola di Guam (9 delegati in palio), nell’Oceano Pacifico, e tre giorni dopo nei più importanti Stati dell’Indiana (84) e Nord Carolina (134). Il 13 maggio toccherà poi alla West Virginia (39), primarie seguite il giorno 20 da quelle in Kentucky (60) e Oregon (65) per chiudere infine il 1° giugno a Porto Rico (63) e due giorni dopo in Montana (24) e Sud Dakota (23). Alla vigilia di questi appuntamenti, secondo una delle più recenti stime del New York Times, la situazione tra Obama e Clinton vede il Senatore afro-americano in vantaggio di circa 150 delegati.

I Superdelegati Dal momento che al termine delle elezioni primarie nessuno dei due candidati democratici, salvo clamorose sorprese, riuscirà a raggiungere la soglia dei 2.025 delegati necessari per ottenere la nomination, sarà decisivo il voto dei 795 parlamentari, governatori ed altre personalità del Partito Democratico che avranno libertà di scelta nella Convention di fine agosto. Forte dei legami stabiliti durante la Presidenza del marito, Hillary Clinton vanta da tempo un vantaggio nel numero dei Superdelegati che hanno già fatto la loro scelta di campo. Ma le vittorie travolgenti di Obama nel mese di febbraio hanno cominciato ed erodere la superiorità della ex First Lady. Recentissimo è in questo senso l’appoggio ufficiale incassato da Obama del corteggiatissimo Governatore del Nuovo Messico Bill Richardson, unico Governatore ispanico di tutti gli USA e ritiratosi dalla corsa alla nomination dopo le primarie di gennaio in Iowa e New Hampshire.

Tra i Superdelegati più autorevoli si stanno intanto moltiplicando gli appelli ad una risoluzione del testa a testa tra Hillary e Obama prima della Convention per evitare pericolose spaccature all’interno del Partito che potrebbero vanificare il vantaggio che da mesi i democratici conservano sui repubblicani penalizzati da un’opinione pubblica stanca di George W. Bush e della sua politica. In caso l’equilibrio rimanga invariato fino a giugno, c’è chi auspica che uno dei membri più prestigiosi del Partito, come l’ex vice-Presidente Al Gore oppure il capo dei democratici Howard Dean o ancora la Speaker della Camera dei Rappresentanti Nancy Pelosi, intervenga per risolvere la questione; altri invece, come ha fatto il Governatore del Tennessee Philip Bredesen in un appello pubblicato dal New York Times, propongono una sorta di caucus tra tutti i Superdelegati da tenersi al termine delle primarie ai primi di giugno in modo da giungere alla Convention con i giochi già fatti.

Nonostante la permanente incertezza in casa democratica permetterà ai due candidati alla nomination di rimanere al centro dell’attenzione di tutti i media nazionali ancora per molto tempo, l’inasprimento dei toni delle rispettive campagne elettorali nelle ultime settimane sembra non promettere niente di buono per il Partito dell’asinello che potrebbe andare incontro, come molti paventano, a divisioni intestine e a laceranti polemiche che peraltro stanno già emergendo in seguito alla questione delle primarie annullate in Florida e Michigan. Il tutto a beneficio di un John McCain che da tempo ha in tasca la nomination repubblicana con la possibilità di concentrare tutti i suoi sforzi sulle elezioni di novembre. Un’eventuale ribaltamento dell’esito delle primarie nella scelta del candidato alla presidenza da parte dei Superdelegati, ipotesi poco probabile ma comunque plausibile, produrrebbe inoltre un ulteriore senso di sconforto in un elettorato che vedrebbe il proprio voto sostanzialmente delegittimato.

Sono in definitiva le stesse norme che regolano le primarie democratiche a determinare una pericolosa situazione di stallo quando a concorrere per la nomination vi sono come quest’anno due candidati del peso di Barack Obama e Hillary Rodham Clinton. L’aver combinato il metodo proporzionale nell’assegnazione dei delegati per primarie e caucuses nei singoli Stati con un numero così elevato di Superdelegati con diritto di voto, i quali rappresentano circa 1/5 dell’intera rappresentanza democratica alla Convention, finisce inevitabilmente per protrarre una situazione di sostanziale parità difficilmente spezzabile quando tra i due candidati regna l’equilibrio. Se, come sembra ragionevole, il motivo principale dell’istituzione dei Superdelegati risiede nel tentativo di creare un legame tra il potenziale futuro Presidente degli Stati Uniti e i membri del Partito che occupano posizioni di potere in vista di una fruttuosa collaborazione durante i quattro anni del mandato, più saggio sarebbe forse stato ridurne l’incidenza oppure, come avviene per il Partito Repubblicano, combinarne l’esistenza con l’assegnazione dei delegati durante le primarie secondo il metodo maggioritario (“winner-takes-all”). In presenza di quest’ultimo criterio infatti, la sfida in casa democratica sarebbe con ogni probabilità già stata decisa da tempo.