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Categoria: Esteri
di Eugenio Roscini Vitali

La tenace resistenza con la quale si sta opponendo all’embargo e all’azione militare israeliana, il risonante effetto ottenuto sull’opinione pubblica con l’abbattimento del muro di Rafah e la crescita di consensi guadagnata a discapito di Fatah sono i fattori che fanno di Hamas la principale forza politica palestinese: un movimento che sul terreno rappresenta più di un terzo della popolazione, che dal 25 gennaio 2006 controlla il Consiglio Legislativo Palestinese e che può diventare determinante nel processo di pace con Israele. Una forza che va vista nell’ottica di una guerra che quasi tutti considerano insostenibile e la cui risoluzione non può prescindere dal suo coinvolgimento. Di questo ne è convito soprattutto Jimmy Carter che, nonostante le critiche dell’amministrazione americana e degli stessi israeliani, rimane il principale fautore di questa tesi (Palestina, alla disperata ricerca di una soluzione, 15 gennaio 2008). E così, mentre l’amministrazione Bush continua caparbiamente a battere la pista Olmert-Abbas, l’ex presidente Americano vola a Damasco dove incontra il leader in esilio del movimento islamico, Khaled Meshaal, per trattare una tregua più che mai necessaria. Anche se in molti considerano l’incontro con Meshaal un insuccesso, dalla capitale siriana arriva sicuramente una notizia importante: Hamas accetterebbe la costituzione di uno Stato palestinese sul territorio occupato da Israele durante la guerra in Medio Oriente del 1967, uno Stato i cui confini ricalcano quelli preesistenti la guerra del 4 giugno, con Gerusalemme capitale, sovranità reale e pieno diritto al ritorno dei profughi.

Tutto questo senza comunque riconoscere Israele. Inoltre è pronto a dichiarare il cessate il fuoco e una tregua duratura purché sottoscritta anche da Israele. Certo, non è molto, ma le dichiarazioni di Meshaal dimostrano che all’interno del movimento è ancora forte il peso dell’ala più pragmatica, quella meno intransigente, quella disposta a rispettare la volontà nazionale palestinese espressa attraverso un referendum popolare che, almeno per ora, sembra impraticabile, ma che, nonostante la crisi istituzionale con Fatah, potrebbe non essere impossibile.

L’esclusività del dialogo tra Israele e l’Autorità palestinese e il conseguente isolamento di Gaza si sono fino ad ora dimostrate scelte totalmente sbagliate, una strategia controproducente e pericolosa che negli anni ha condotto Hamas tra le braccia di Iran e Siria; in termini di vite umane hanno rappresentato un costo sproporzionato che è stato spesso pagato da innocenti e che ha dato largo margine di manovra ai gruppi più radicali del movimento.

Guardando al passato, Hamas è stato spesso descritto come un soggetto politico incapace di arrivare ad un qualsiasi compromesso o ad una forma accettabile di dialogo con la controparte, sia essa Israele o i suoi alleati occidentali, Fatah o la stessa Autorità palestinese. Un fatto non sempre vero visti gli esempi del recente passato: le dichiarazioni di cessate il fuoco del 2003 e del 2005 e la decisione di partecipare alle elezioni legislative del 2006, scelta che puntava a consacrare l’immagine politica di un movimento fino ad allora etichettato da tutti come gruppo terroristico.

In vent’anni di storia Hamas si è trasformato da organizzazione religiosa islamica a carattere paramilitare in movimento politico; dalle bombe e gli attentati è passato alla promozione di strutture sociali, ospedali e scuole, è stato vicino agli strati più deboli della popolazione e ha occupato gli spazi lasciati vuoti da Fatah, troppo impegnato nella spartizione dei poteri e nella politica internazionale per seguire le reali necessità di un popolo ormai alla deriva.

In cambio ha ottenuto la fiducia e il sostegno dei palestinesi, un appoggio che il 25 gennaio 2006 ha trasformato in una straordinaria vittoria politica ottenuta soprattutto grazie al voto della classe media, quella che ancora crede nella pace. Negli ultimi sei anni, all’interno del movimento si è consolidato un gruppo moderato che ha promosso le tregue del 2003 e del 2005, entrambe minate dalla riapertura delle ostilità, si è visto negare la vittoria elettorale del 2006, ha subito l’attacco di Fatah nel 2007 e l’assedio israeliano a Gaza nel 2008.

Nonostante tutto, l’ala moderata non può ancora dirsi sconfitta: il premier Ismail Haniya gode della fiducia di gran parte della popolazione; il 40% dei palestinesi che nel 2006 ha votato per Hamas è a favore del processo di pace e il 60% condivide la soluzione di due stati separati. Al contrario, il perdurare della crisi di Gaza e le pressioni subite in Cisgiordania hanno innalzato notevolmente la percentuale dei palestinesi che si dicono a favore di azioni militari contro Israele (dal 40% del 2005 al 67% del 2008).

Ora, quello in cui molti sperano, Jimmy Carter in primis, è che Fatah, l’Autorità palestinese, Israele e la comunità internazionale cambino la loro posizione. Continuare a mantenere Hamas in una condizione di totale isolamento significherebbe legittimare l’ala più radicale del movimento, mantenendo la regione in una costanze situazione di instabilità.