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Categoria: Esteri
di Giuseppe Zaccagni

La Russia di Putin-Medvedev sostiene che le relazioni del governo di Pechino con il Dalai Lama sono “una questione interna” e, di conseguenza, critica i tentativi di “politicizzare” il prossimo appuntamento dei Giochi Olimpici in Cina. Eppure mentre la Russia ufficiale alza la voce per rafforzare sempre più i suoi legami con Pechino c’è chi rema controcorrente. E si tratta di una voce autorevole. Perché interviene il Lama locale - Tasci Gjazo - che a Mosca dirige il “Centro tibetano per la cultura e l’informazione”. Il personaggio (classe 1967, nato nel Tibet orientale) si è distinto in questi anni per il suo pragmatismo e per la sua volontà di stabilire buone relazioni con la dirigenza russa. Forte dell’appoggio di quelle repubbliche autonome a maggioranza tibetana (Baskiria, Buriatia, Calmucchia, Tuva) si è insediato nella capitale dopo essere stato cacciato dal Tibet: presentato direttamente ai monaci della Buriatia dal grande Dalai Lama ha assunto poi la direzione del centro buddista di tutte le Russie che è un’istituzione ufficialmente registrata - dal 1993 - presso il ministero della Giustizia della Russia. Accettato ed accreditato dal Cremlino Tasci Gjazo è ora una spina nel fianco del potere russo. E’ lui che sta organizzando una campagna in favore del Tibet e, quindi, di dura polemica con la Cina. La dirigenza russa, intanto, tace per non muovere le acque e per non aprire fronti interni. Ma è certo che l’attività del Centro tibetano - con le tante pubblicazioni che presenta e diffonde - non lasciano tranquilli gli organi della sicurezza che si trovano a controllare oltre un milione di russi-tibetani che vivono sparsi nelle regioni siberiane della Buriatia, nelle zone della provincia di Aghinskij, negli Altai, a Tuva, in Calmicchia e nel sud delle aree che si affacciano sul Caspio.

Ed eccolo il Lama russo che - sull’onda delle manifestazioni a favore del Tibet che si svolgono in varie parti del mondo - alza la voce in una Russia che sembrava lontana dall’onda tibetana. Non è così. La situazione sta esplodendo. Tasci Gjazo invita, infatti, tutti i tibetani della Russia e della Mongolia a pregare e manifestare in favore del Tibet: “Voi che vivete nella repubblica russa - dice in un messaggio reso noto nei giorni scorsi - sapete bene quello che sta accadendo a Lhasa e in altre città e per questo v’invitiamo a seguire una situazione che è sempre più difficile e pericolosa. Noi non possiamo restare assenti e in disparte. Muoiono monaci e cittadini. E sono tutti nostri fratelli”.

L’appello con un palese invito alla mobilitazione è chiaro. E così da Mosca partono precise richieste a tutti i centri tibetani del paese. Si mobilitano istituzioni che sembravano scomparse o delle quali si è sempre saputo ben poco. E la Russia scopre l’esistenza di una “Amministrazione centrale tibetana” che ha sedi in varie parti del mondo e che (aiutata finanziariamente dal governo indiano e da diverse organizzazioni internazionali di volontariato) si occupa della costruzione dei monasteri tibetani e della gestione di vari istituti religiosi e culturali. In pratica il Lama-russo mantiene contatti diretti con gli uffici tibetani di Nuova Delhi, New York, Tokyo, Londra, Kathmandu, Ginevra, Budapest, Parigi, Camberra e Washington. La Mosca di Tasci Gjazo, in tale contesto, diviene la capitale più importante dal punto di vista di una mobilitazione anticinese.

La prima area dove si concentrano le azioni del “Centro” russo (con l’impiego di una enorme macchina propagandistica che ricorda le tecniche del banchiere Soros) è la Repubblica autonoma della Baskiria, negli Urali meridionali. Qui, nella capitale Ufa, si concentrano ora i tibetani che si oppongono alla Cina. Altro punto dove è forte la protesta anticinese è quello della Repubblica dei Calmucchi dove, nella città di Elista, si sono già svolte manifestazioni in appoggio ai monaci tibetani di Lhasa. Si è giunti anche a far comparire negli schermi della capitale alcuni filmati in appoggio alla protesta anticinese.

La situazione di questa repubblica è resa ancor più difficile dal momento che il presidente locale - Kirsan Ilumžynov - sta diffondendo un "pensiero etnoplanetario", nel tentativo di far convivere la tecnologia occidentale e lo spirito orientale: fra cibernetica e ritualismo buddista. E per far trionfare le sue idee e i suoi programmi ha promesso di trasformare questa arretrata terra di pastori “in un secondo Kuwait”. Tutto per attirare capitali stranieri con cui finanziare un fondo per lo sviluppo del paese. Di soldi ne sono arrivati tanti, ma sono finiti tutti nelle tasche di questo presidente e dei suoi corrotti amici finanzieri. Ora Ilumžynov punta sulla carta anticinese cavalcando la protesta dei monaci.

Forti movimenti anticinesi si registrano anche nella Repubblica autonoma di Tuva - nella Siberia meridionale - dove la religione più diffusa è il buddismo lamaista. L’appoggio ai monaci di Lasa, qui, è pressoché totale ed ora si intensificano anche le azioni per la costruzione di una statua di Budda alta 40 metri. Si muovono contro Pechino anche i seguaci del lamaismo che vivono nella Buriatia una regione centro-meridionale della Siberia, lungo la costa orientale del Lago Bajkal con capitale Ulan Udè. Ecco, quindi, che la rivolta dei fedeli buddisti che vivono in Russia viene seguita con apprensione dal Cremlino. Si temono rivolte che potrebbero andare oltre le previsioni. Le Olimpiadi di Pechino sarebbero solo un primo pretesto per alzare il livello di scontro con la Mosca ortodossa.