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Categoria: Esteri
di Elena Ferrara

Ora, dopo cinque anni di duro carcere americano a Baghdad, arriva per il settanduenne Tariq Aziz il giorno del giudizio. Era stato primo ministro dell’Iraq ed anche ministro degli Esteri con Saddam Hussein del quale era il principale negoziatore ai tempi della guerra del Golfo. Volto noto in ogni parte del mondo - anche come esponente cristiano - si era conquistato la fama di pragmatico capace di stabilire buoni rapporti con il mondo cattolico e con il Vaticano in particolare. Nato a Mosul da una famiglia cristiano assira con il nome di battesimo Michaele Yohanna (cambiato poi in Tariq) si era consegnato spontaneamente alle forze di occupazione americane il 24 aprile 2003, a pochi giorni dalla caduta di Baghdad. Ora arriva in Tribunale perché incriminato - come informa Jaffar al-Mussawi, pubblico ministero presso l'alto tribunale dell'Iraq - per aver avuto un certo ruolo nell'esecuzione, nel 1992, di una quarantina di commercianti che erano stati accusati di aver incrementato i prezzi dei beni essenziali al tempo in cui l'Iraq versava in gravi difficoltà economiche per le sanzioni imposte dall'Onu a causa dell'invasione del Kuwait. Tariq era già comparso in tribunale, ma sempre come testimone nei primi processi organizzati dagli americani a Baghdad contro alti esponenti della direzione di Saddam. Ma ora è la prima volta che appare in aula come imputato. Ed è chiaro che questo nuovo processo servirà agli americani ed ai loro uomini dell’Iraq per riaprire la vicenda sulle colpe del periodo di Saddam Hussein e rinfocolare nel paese il clima della resa dei conti a livello politico-giudiziario.

Intanto il figlio di Tariq Aziz, Ziad, dal suo esilio ad Amman, dichiara che suo padre "non ha alcun legame" con l'esecuzione dei commercianti. Dice, in proposito, che: "All'epoca dei fatti, mio padre era all'estero per una missione ufficiale" che riguardava "la questione delle commissioni d'indagine internazionale per la ricerca delle armi di distruzione di massa", del cui possesso l'Iraq era accusata dalla comunità internazionale. A riprova di quanto sostiene la famiglia dell'anziano esponente cristiano, "nessun dei familiari di quei commercianti - prosegue Ziad - ha esposto denuncia contro mio padre".

Sul processo contro Tariq Aziz intanto si concentra l’attenzione degli ambienti della Chiesa cattolica Caldea dell’Iraq. Ci si riferisce, in particolare, all’uccisione dell’arcivescovo caldeo di Mossul, monsignor Paulos Faraj Rahho, per far notare che sarebbe in atto un disegno per cancellare dall’Iraq la presenza di una componente cristiana della quale, appunto, Aziz è uno dei massimi esponenti. E la sua presenza nelle alte sfere di Baghdad ha sempre avuto un preciso significato: di tolleranza e di apertura verso altre religioni ed istanze. E non è un caso, ad esempio, se molti cristiani assiri e caldei hanno sempre sostenuto le rivendicazioni di autonomia dei curdi.

Tanto che dopo la guerra del Golfo del 1991 mentre Saddam giocava la carta religiosa, imponendo elementi della legge islamica in tutto l’Iraq e discriminando le minoranze Tariq Aziz entrava in contatto con uomini politici, dirigenti di associazioni cattoliche e sacerdoti europei per stabilire un dialogo e rendere il regime di Saddam accettabile. Oggi, inoltre, si ricordano i suoi tentativi volti a portare a Baghdad il Papa Giovanni Paolo II proprio per esaltare quel mosaico etnico e religioso in un paese dove i cristiani iracheni si erano trovati alla ribalta, per il lasso di un momento storico, dopo esser rimasti per anni ai margini della scena politica, lontani da quei conflitti comunitari che avevano insanguinato il paese, a nord e a sud.

E si sa che il problema del rapporto inter-religioso non è un fatto da poco in un Iraq che, secondo le stime del Consiglio delle Chiese, contava (almeno negli ultimi anni) 1,2 milioni di cattolici caldei su una popolazione di 22 milioni di iracheni, appena il 5,45 % del totale. E così pur se minoritari i cristiani iracheni formano comunque un mosaico etnico e religioso che risale, nella memoria nazionale, ai tempi della Mesopotamia, della Bibbia e delle divisioni che hanno segnato la storia del cristianesimo.

Di fatto, la maggior parte dei cristiani sono caldei e sono organizzati, come i maroniti in Libano, intorno a una chiesa autonoma che si riunì a Roma alla metà del XVIII secolo. La restante minoranza è composta da armeni, assiri, siriaci e arabi, che possono essere cattolici, ortodossi, protestanti o anche avventisti. Per non parlare delle nuove sette, evangelisti o testimoni di Geova, la cui influenza è cresciuta proprio in questi anni.

Tutti questi temi e problemi riaffiorano oggi a Baghdad in una fase che si annuncia più cupa, mentre l’occupazione americana resta pesante e crudele. E l’Iraq non trova la via per uscire dal tunnel della repressione e degli attentati. Con il processo a Tariq Aziz si riapre oggi una pagina di aperti dissensi e scontri. E i risultati che usciranno dal “dibattito” giudiziario non contribuiranno, sicuramente, ad avviare un processo di pacificazione. Si vedrà soltanto che la “Pax americana” in Iraq non ha confini.