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Categoria: Esteri
di Saverio Monno

A sentire i fori economici internazionali le cose vanno a meraviglia in Egitto. Lo scorso ottobre, il Fondo Monetario Internazionale presentava una relazione che esaltava i fasti di un sistema economico in mirabile fermento. Un tasso di crescita del 7,1%, una diminuzione della disoccupazione di 9 punti percentuali, investimenti esteri per circa 11 miliardi di dollari. Questi alcuni numeri dello straordinario “boom” egiziano. Le cause dell’exploit risiederebbero, secondo la relazione dell’FMI, nel grande dinamismo di un settore privato, assistito dalle “premure” del presidente Hosni Mubarak. Il dittatore egiziano, infatti, ha avviato, ormai da qualche tempo, la privatizzazione di alcune importanti imprese pubbliche, comprese banche e terreni. Malgrado gli indiscutibili successi economici però, la situazione non è affatto promettente. A fornire un ritratto completo dell’altro Egitto, è il Consiglio Nazionale per i Diritti Umani, un consiglio governativo che, solo poche settimane fa, ha pubblicato il suo quarto rapporto annuale sul periodo 2007/2008. La crisi mondiale, legata all’impennata dei prezzi delle granaglie, si è abbattuta in Egitto con particolare veemenza.

In un Paese dove più del 40% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e sopravvive con meno di un dollaro al giorno, il costo della vita è cresciuto in modo esponenziale. Le lunghe file per il pane, gli incidenti e le proteste, esplose in tutto il paese, riportano alla mente episodi di “manzoniana” memoria e riaprono le ferite di quella “rivolta del pane” che gettò nel caos l’Egitto del 1977.

Il paradosso egiziano però, non è legato esclusivamente ad una pessima congiuntura internazionale, ad essa si sommano le rovinose scelte economiche del governo ed il particolare clima politico che attanaglia il paese. Quanto al primo aspetto, il rapporto del Consiglio Nazionale dei Diritti Umani afferma perentorio: “Alla luce delle crescenti sofferenze delle classi sociali più bisognose, la tutela dei diritti di questi gruppi popolari è una drammatica priorità”. La relazione, che denuncia il malgoverno di Mubarak e del suo esecutivo, “accusa” sommessamente il dittatore di aver attuato politiche “selvaggiamente” liberiste, di aver dimenticato gli strati più poveri della società e di aver condotto il paese alla fame.

“Se i diritti politici e civili hanno subito pressioni e violazioni – in aumento per numero e gravità - i diritti economici e sociali, in Egitto, sono esposti a violazioni ancor più gravi, il cui peso ricade sulle spalle dei cittadini più disagiati.” E’ quanto afferma Salah Eddin Hafez. Il vicedirettore del noto quotidiano al-Arham, affronta dalle colonne del suo giornale il secondo aspetto della variabile locale della crisi e denuncia il dramma di un paese oppresso da un quadro politico statico, dove ad una dittatura che non accenna alcuna concessione democratica, risponde un’opposizione inerte, disorientata, incapace di mobilitare l’opinione pubblica del paese.

Ad aggravare ulteriormente la situazione vi è il fatto che nessuno dei principali protagonisti della scena politica nazionale sembra in grado di proporre un vero piano strategico, una via d’uscita alla crisi. Il governo continua a ciondolare “geniali” promesse. Mubarak assicura di voler porre un freno all’inflazione, al declino degli standard di vita, punta all’ammodernamento delle reti di protezione sociale, all’aumento dei salari, ed allo stesso tempo si lascia sedurre dalle lusinghe di faccendieri internazionali o strizza l’occhio a tutta una serie di affaristi, stretti alla corte del dittatore per sbancare il lunario.

Frattanto all’ombra delle piramidi, l’Egitto si squarcia, sprofondando in un torbido chiaroscuro, dove la nascita di nuove città, destinate ad una ristretta ed elitaria cerchia di facoltosi, ed i progetti di palazzi principeschi, di abitazioni dal lusso sfrenato, fanno da contrasto alle quasi 900 aree abitative abusive, sorte in tutto il paese. Delle vere e proprie bidonville, in cui vivono tra gli 11 e 17 milioni di egiziani. Le istituzioni governative considerano queste zone pericolosi focolai di rivolta, dei “tizzoni ardenti” da tenere sotto stretto controllo.

Temono possano costituire terreno fertile per il crimine organizzato e per l’estremismo religioso, ma, in realtà, almeno il 70% di queste aree potrebbe essere bonificato e potenziato. “Con una spesa di circa 30 miliardi di dollari – sostengono gli esperti di diritti umani – in cinque anni, il governo potrebbe superare questo scempio”. Ma la priorità non è quella di fornire acqua potabile o pane a quanti soffrono la sete o la fame, l’urgenza è quella di irrigare i numerosi campi da golf ed i giardini delle città delle nuove elite, e difficilmente Mubarak si preoccuperà di prestare attenzione ai problemi reali del suo paese, mettendo a repentaglio lo splendore del “suo” Egitto. Le cose – dicevamo – sembra vadano a meraviglia in Egitto. Già, ma in quale Egitto?