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Categoria: Esteri
di Giuseppe Zaccagni

Ad Harare crollano promesse ed ideali e l’intero paese - lo Zimbabwe - si ritrova sconvolto, in uno stato di continua contraddizione fra la retorica dei propri obiettivi e la realtà dei fatti: completamente stroncato economicamente e socialmente da un’inflazione iperbolica con più dell'80 per cento della popolazione che è disoccupata e bisognosa di aiuti umanitari per sopravvivere. Non ci sono più, di fatto, medicine e le epidemie falcidiano senza sosta: l’Aids colpisce un terzo della popolazione, la mortalità infantile è di 81 bambini su mille, la malaria imperversa a causa della mancanza di acqua potabile anche nelle città. Crolla così quell’impero costruito dal presidente Robert Mugabe che oggi, ultraottantenne e forte di un potere pressoché incontrastato che dura da 28 anni, è riuscito a mettere in ginocchio l’intera realtà nazionale un tempo nota come il granaio dell'Africa. Ma è anche vero che per questo dittatore (un politico con i denti d’acciaio e la volontà di ferro) è arrivato il giorno del giudizio. Il suo partito (Zanu-pf) alle recenti elezioni ha perso la maggioranza e l’opposizione, costituita dal Movimento per il cambiamento democratico (Mdc) guidato da Morgan Tsvangirai, si appresta a scalare il vertice, pur se dovrà attendere un nuovo turno per il ballottaggio. E sarà comunque un periodo di transizione, difficile e contrastato, perché si parla di brogli elettorali e di aperte violazioni della legalità nel corso delle votazioni caratterizzate da violenze ed intimidazioni. E ci sarà, inevitabilmente, una svolta irreversibile nei rapporti internazionali.

Mugabe è, quindi, alle strette. E molte sono le voci (diffuse dalla Bbc) su una serie di trattative che starebbe svolgendo con l’opposizione. Si accingerebbe, infatti, a cedere il potere in cambio di un salvacondotto. Una vera e propria fuga per non cadere sotto i colpi di un’eventuale resa dei conti che - come riferiscono fonti diplomatiche del Dipartimento di Stato degli Usa - si starebbe preparando negli ambienti militari di Harare. Lo Zimbabwe, di fatto, si prepara a voltare pagina per uscire da un labirinto economico del quale non riesce a liberarsi. Del dittatore restano, comunque, molti ricordi mentre si sta avvicinando il collasso.

Nato negli anni Venti presso la missione dei gesuiti di Kutama, è stato sempre un cattolico, bantu, tradizionalista e socialista nello stesso tempo. Con queste differenti componenti ideologiche - che si sono mescolate durante questi anni di potere - ha esercitato anche l’insegnamento. Accostatosi al marxismo durante gli studi universitari (sette lauree) e gli anni di prigionia tra il 1964 e il 1974 divenne socialista per abbracciare poi, la lotta armata (che guidò dal Mozambico) e il leninismo. Come bantu conosce il valore dei vincoli di sangue e dei legami ancestrali, caratteristiche proprie degli Shona, etnia maggioritaria del Paese. Ma in lui hanno sempre dominato i principi del clientelismo e del nepotismo con un preciso atteggiamento paternalistico verso i beni dello Stato; male peraltro terribilmente diffuso nel Continente nero. E così il “cristiano” Mugabe si sposa due volte in chiesa, dopo essere rimasto vedovo e obbliga le sue guardie del corpo a seguire tutte le domeniche - nella cattedrale di Harare - la messa.

Nonostante la sua assidua pratica religiosa non manca però - cercando di raffreddare le tensioni sociali - di criticare la dottrina cattolica. Ma la sua gestione del potere assume anche una veste prettamente “sovietica”. E’ bene accetto al Cremlino di Breznev e riceve aiuti notevoli da Mosca, soprattutto quanto ad armamenti. Chiama Politburo (come è nella pratica del Pcus) il comitato centrale del suo partito; definisce il popolo come "le masse" e auspica l'introduzione del partito unico necessario in un'Africa povera ove la democrazia - sostiene - sarebbe un "lusso per Paesi ricchi". E così lo Zimbabwe - che mostra sempre più i germi di un’irreversibile decadenza - diviene de facto uno Stato a partito unico ove si attua una politica di "indigenizzazione" secondo una via “socialista” tutta zimbabwiana, sconvolta da fermenti etnici.

Ora è difficile riconoscere in lui il vecchio comandante guerrigliero che, ventotto anni fa, sconfisse i coloni bianchi di Ian Smith e che cancellò dall'Africa australe lo Stato razzista della Rhodesia. Non è più credibile. Ossessionato dagli attentati il “Compagno Bob” (così era chiamato un tempo) viaggia a bordo di una Rolls-Royce blindata e scortata da tre autovetture, piene di poliziotti e da due pick-up, stracolmi di militari. Un corteo definito President's cavalcade che nelle strade di Harare non è consigliabile intralciare. Tanto più in questi ultimi tempi quando la popolazione locale lo chiama con il soprannome di “Magaba” che in lingua shon vuol dire “uomo crudele”. Ma lui, insensibile all’opinione pubblica, conserva abitudini e tradizioni di vecchio stampo: punta a tempi lunghi dimenticando la sua età.

Eppure, eletto Presidente dopo la guerra civile, era apparso come un leader intelligente, ispirato dall’ideologia marxista e ritenuto un abile uomo di governo. Con un astuto compromesso non scritto era riuscito a far restare i bianchi nello Zimbabwe e far loro gestire il potere economico in cambio della cessione del potere politico ai neri. E anche grazie a questo tipo di politica era divenuto una sorta di eroe nazionale, astuto e pragmatico, capace anche di intuizioni profonde.

Inizialmente si era aggregato al partito Zimbabwe African People’s Union (Zapu), guidato da Joshua Nkomo, per fondarne uno tutto suo, lo Zanu, pochi anni dopo. Negli anni ’70, si ritrovò in Mozambico a coordinare una guerriglia contro il governo coloniale di Ian Smith, e contro il white rule, il dominio bianco. Dopo una lunga guerra civile contro la preponderanza inglese, Londra fu costretta ad ammettere la sconfitta e il 18 aprile del 1980 lo Zimbabwe divenne uno stato indipendente. L’eroe della resistenza nominato primo ministro, nel giro di qualche anno formò un partito con l’amico-rivale Nkomo: lo Zanu Patriotic Front Ma le contraddizioni restarono paradossali.

Oggi, l'occupazione delle fattorie, soprattutto quelle gestite dai bianchi, è un punto nodale del paese pur se molte delle aziende sono state ridimensionate e invase con l'uso della forza, spazzando via il delicato equilibrio razziale. E sono in molti a ricordare che, quando nel 1980 nel paese fu raggiunta pacificamente l’indipendenza, si sperò in una nuova stagione. Allora il Mozambico e l'Angola erano dilaniati dalle guerre civili e lo Zambia era sconvolto dalla crisi economica determinata dal crollo sui mercati internazionali del prezzo del rame, sua principale risorsa mineraria. Allora, si ritenne un successo la firma degli accordi (dicembre 1979) di Lancaster House da parte di Ian Smith, primo ministro bianco, e dei leader dei guerriglieri neri, Mugabe e Joshua Nkomo.

Sembrò che la maggioranza nera potesse autogovernarsi in un mondo attraversato da grandi cambiamenti sociali, politici ed economici e i futuri dirigenti dello Zimbabwe ritennero opportuno inserire nella Costituzione un articolo per proteggere la proprietà privata, in particolare quella terriera, e una clausola che impediva la modifica della Carta prima di sette anni. Una forma di assicurazione alla popolazione bianca come garanzia di un nuovo e più umano ordine sociale. Poi, durante i primi dieci anni d'indipendenza, lo Zimbabwe conquistò un posto preminente in Africa australe. La situazione mutò a partire dal 1991. Il Governo di Harare subì, da parte del Fondo monetario internazionale, l'imposizione di drastici provvedimenti economici che imponevano a Robert Mugabe l'adozione di misure impopolari, proprio quando più di settecentomila famiglie di contadini chiedevano che fosse riesaminata la questione riguardante la distribuzione delle terre. Si ruppe allora quel fragile equilibrio che dominava il governo di Harare.

Ed ecco che ora molti osservatori paragonano Mugabe a un vecchio elefante braccato definendolo "l'ultimo imperatore africano" dopo Bokassa, l'oppressore della Repubblica Centrafricana: entrambi uniti dalla passione per i diamanti. Il Presidente, nelle elezioni tenutesi a marzo, aveva promesso: "Se perdi un'elezione e sei respinto dal popolo, è tempo di lasciare la politica". Ancora non l'ha fatto. Forse il vecchio elefante è in procinto di sferrare l'ultimo colpo di proboscide puntando ad una linea strategica di rottura con l’opposizione. Intanto, tenta pur sempre la carta degli appoggi internazionali che era riuscito ad ottenere negli anni in cui era il pupillo del Cremlino, il rappresentante “sovietico” in terra d’Africa.

Difeso a spada tratta sulla Prava era sempre presentato come il massimo esponente di un movimento di orientamento marxista leader della lotta di liberazione della Rhodesia contro il regime razzista di Ian Smith. Cambiano i tempi e cambia l’atteggiamento nei suoi confronti. Perché fame e povertà dilagano nelle campagne, la disoccupazione è padrona delle città e il malcontento cresce. Gli oppositori sono picchiati, rinchiusi in carcere, torturati, uccisi o condannati all’esilio. I giornali troppo critici sono chiusi, gli attivisti per i diritti umani perseguitati. Fa promulgare leggi contro gli omosessuali e limita la libertà di stampa, minaccia le comunità dissidenti nelle aree rurali di lasciarle morire di fame.

Chiama a raccolta veterani di guerra, giovani aitanti e criminali comuni, generalmente impiegati per minacciare o far sparire i dissidenti, e li lancia verso le campagne. Nel giro di pochi mesi la maggior parte dei proprietari terrieri bianchi è cacciata con la forza e le terre sono ridistribuite. Ma non al popolo, bensì agli amici intimi o ai soci in affari del presidente. E pensare che c’era un tempo in cui la rivista teorica dei partiti comunisti di tutto il mondo - si chiamava “Problemi della pace e del socialismo” - lo definiva “salvatore dell’Africa” e “faro del socialismo”.