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di Elvira Corona

Verità e ricerca di giustizia sono state protagoniste gli scorsi giorni dell'incontro a Cagliari con Tecla Ferranda dell'associazione di giuristi democratici e Silvia Baraldini, l'attivista condannata a 43 anni di prigione negli Stai Uniti. La verdad de frente al mundo (la verità di fronte al mondo ndr) è il titolo del documentario realizzato e presentato dall'Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba all'apertura dell'incontro. Un lavoro frutto di oltre due anni di ricerca e studio di numerosi documenti della C.I.A., del Dipartimento di Stato e di Giustizia Usa, oggi non più coperti da segreto di Stato, che racconta come gli Stati Uniti si comportino diversamente nei confronti del terrorismo, seguendo un doppio binario. Se da un lato sono previste dure e severe condanne, capaci di giustificare guerre in altri paesi e profonde restrizioni alle libertà dei cittadini comuni (si pensi al terrorismo islamico), dall'altro invece la democrazia più potente del mondo mostra una certa tolleranza o peggio, il terrorismo lo foraggia. Quest'ultimo é l'atteggiamento assunto nei confronti e a danno di Cuba, l'isola cosi vicina geograficamente agli Stati Uniti, ma politicamente profondamente lontana. Il documentario racconta di storie negate ma reali, come quelle dei parenti delle vittime cubane di attentati compiuti da americani, o le testimonianze degli esecutori materiali e dei mandanti, tutti rei confessi, che oggi vivono liberamente a Miami. Tra questi Luis Posada Carriles, mandante dell’attentato che causò la morte dell'italiano Fabio Di Celmo e di altri atti terroristici contro Cuba, o ancora l'esplosione in volo nel 1978, di un aereo civile cubano con 73 persone a bordo.

Esempio di storia che non trova spazio nei grandi mass media, è quella dei cinque cubani detenuti nelle carceri statunitensi dal settembre del 1998, per aver scoperto e svelato i nomi dei terroristi di Miami. Ritenuti colpevoli e condannati a pene durissime che vanno dai 19 anni all'ergastolo per spionaggio e associazione a delinquere da una sentenza nel 2001, poi annullata nel 2005 dalla Corte di Appello di Atlanta. Il tribunale federale di Miami è stato ritenuto un tribunale ostile agli imputati e nonostante il processo sia stato anche oggetto di condanna da parte della Commissione diritti civili e politici dell'Onu per la detenzione arbitraria degli imputati, Fernando, Ramon, Gerardo, Renè e Antonio, che sono tutt'ora detenuti oltre ogni limite previsto dalle norme sulla carcerazione preventiva.

Di questa incredibile vicenda ha spiegato i risvolti giuridici Tecla Farranda, che tiene a sottolineare come secondo lei non è solo una questione giuridica. C'è chi dice che la politica non c'entra niente con questa storia, ma se ricordiamo che il processo è iniziato sulla base di un'accusa di spionaggio (acquisizione di informazioni dannose per gli Usa) e che questa accusa è caduta dopo un anno dall'arresto, che anche i testimoni dell'accusa tra i quali numerosi componenti della CIA, hanno dichiarato che queste persone non erano mai state considerate pericolose per lo Stato, mentre altri terroristi che si sono dichiarati colpevoli ora girano liberi per Miami, si capisce che qualcosa di politico c'è eccome, afferma la giurista.

Anche negli Stati Uniti, così come in Italia, nel processo penale non è l'imputato a dimostrare l'innocenza, ma è l'accusa a dover dimostrare la colpevolezza. Dopo che è caduta la prima delle accuse, quella di spionaggio è rimasta in piedi quella di associazione per delinquere, ma senza nessun documento o prova che colleghi queste persone al compimento di un atto criminale. L'unico reato che sembra abbiano compiuto a leggere i documenti, è quello di difendere il proprio paese, ma questo non può essere considerato un reato in nessun paese del mondo, continua Ferranda.

Parla di un processo kafkiano, per il quale i cinque sono ancora in carcere in regime di isolamento, con poche visite concesse a familiari e avvocati, (un regime usato per esempio in Italia per i mafiosi con sentenza passata in giudicato). “Gli Stati Uniti fanno guerra anche con i processi - sostiene Tecla Ferranda - violando palesemente i diritti umani, come quello ad avere un giusto processo e in tempi ragionevoli.

Lo scorso agosto è iniziato un nuovo processo, la giurista italiana era presente e si dice ottimista per una soluzione positiva del caso. Ferranda parla poi di come la stampa e i media in generale non abbiano quasi mai parlato di questa vicenda, e racconta come le associazioni di solidarietà con i detenuti nel 2004 furono costrette a pagare una pagina pubblicitaria del New York Times per far conoscere la vicenda processuale. “Ora c'è più attenzione, anche grazie alle oltre 250 associazioni di solidarietà che si sono formate in tutto il mondo e che si occupano di far conoscere il caso, come “Amnesty International”, ma anche altre molto piccole”. Le prossime elezioni di novembre saranno sicuramente importanti non solo per l'esito della vicenda ma anche per la nuova politica da adottare nei confronti di Cuba.

Silvia Baraldini, che negli Stati Uniti ha trascorso tanti anni e molti dei quali in carcere, ha raccontato la sua esperienza con la giustizia nordamericana. “Non è vero che sono stata arrestata per non aver fatto nulla - precisa Baraldini - è vero che ho aiutato ad evadere una donna afro-americana e che mi sono rifiutata di testimoniare contro altri attivisti per il movimento indipendentista di Puerto Rico”. Per ognuna di queste accuse fu condannata rispettivamente a 20 e 3 anni di prigione, più altri 20 per associazione a delinquere, per un totale complessivo di 43 anni. La pena poi non venne poi scontata per intero per motivi di salute.

La Baraldini ha spiegato come sia importante ed influente la politica nelle questioni giudiziarie americane, sopratutto quando a giudicare un reato è la Corte Federale, come nel suo caso e nel caso dei cinque cubani: “I giudici sono nominati direttamente dal Presidente e questi giudicano sempre in base all'interesse nazionale che è comunque predominate”.

Parla poi del clima che si respirava a Miami negli anni 60, dove c'era una concentrazione di cubani anticastristi, che facevano propaganda ma che erano – e continuano ad essere - utilizzati dal governo statunitense a seconda delle sue necessità, come pedine di una scacchiera. “C'è una guerra non dichiarata nei confronti di Cuba - continua Silvia Baraldini - che inizia negli anni sessanta e si esprime a vari livelli e la mia vicenda e quella dei cinque cubani ancora detenuti sono conseguenze di questa guerra”

Lei ha poche speranze sulle soluzioni giuridiche se separate da azioni politiche, è convinta che siano necessarie forti pressioni internazionali “perchè anche se non sembra gli Stati Uniti sono sensibili alle pressioni esterne. Bisogna creare le condizioni per trattare, come è successo nel mio caso. Se ci sono le condizioni e la volontà allora la soluzione è solo una questione tecnica”.