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Categoria: Esteri
di Valentina Laviola

Il 17 maggio scorso si sono tenute in Kuwait le elezioni legislative e anche questa volta, come già accaduto nel 2006, nessuna donna delle 27 candidate è riuscita ad ottenere voti sufficienti per essere eletta. Si è trattato della seconda prova per le femministe del Paese, dal momento che hanno ottenuto il suffragio universale solo nel 2005. Ci ha stupito non trovarne menzione sulle maggiori testate europee - tra le quali fa eccezione lo spagnolo El Paìs; pertanto le notizie ed interviste qui riportate sono ricavate in massima parte da al-Jazeera e altri giornali del Medio Oriente. Le prime elezioni in cui le donne hanno potuto votare ed essere votate sono state le legislative del 29 giugno 2006, la prima volta del suffragio universale da quando il Kuwait ha ottenuto l’indipendenza nel 1962. Jenan Bushehri, ingegnere chimico di 33 anni, fu la prima donna kuwaitiana a candidarsi, sfidò i pregiudizi sociali tenendo comizi pubblici. Nel 2006 era stata la donna più votata, piazzandosi prima fra gli esclusi dal Parlamento; allora si disse comunque felice di aver preso parte ad un momento storico per il Paese. Quest’anno gli osservatori ritenevano che fosse lei l’unica ad avere qualche chance di successo. Ha scelto di adottare per la sua campagna lo slogan (davvero molto imitato) di Obama, nel suo caso caricato di un significato fondamentale: “Yes we can” rappresentava la possibilità di riuscire finalmente a vedere una donna occupare un seggio del Parlamento. Purtroppo, il traguardo è sfuggito ancora. A lei, e alle altre come Aseel al-Awadhi, l’unica candidata sostenuta da un gruppo politico (la National Democratic Alliance), la quale in un’intervista filmata ha spiegato: “Abbiamo più di dieci articoli nella nostra Costituzione che sottolineano la libertà dell’individuo ed è questo che chiediamo…un liberal è chiunque pensi che la libertà debba rappresentare il più alto valore nella politica, che il governo debba proteggere la libertà individuale delle persone”. I ruoli di uomini e donne, la separazione dei ragazzi e delle ragazze nelle scuole e nelle università sono stati al centro della sua campagna, affrontando tematiche controverse in un paese così tradizionalista ha suscitato l’ira dei conservatori religiosi.

Rula Dashti è, invece, una candidata indipendente, con alle spalle tante lotte contro il divieto per le donne di correre nelle elezioni. Nel 2006 non aveva avuto successo, ma questa volta, sperava di strappare voti ai conservatori rivolgendosi “a temi che riguardano la vita quotidiana di tutti, quali lo sviluppo, la crescita della classe media, proteggere il futuro dei nostri figli e garantire loro maggiori opportunità, i diritti delle donne, il sistema educativo”. Non sono mancati alcuni episodi più o meno gravi, quali la denuncia di un candidato che aveva cercato di corrompere alcune elettrici del suo distretto promettendo in cambio del voto mille dinari kuwaitiani (quasi 2500.00 euro) e una borse pregiata. Sono state le stesse donne oggetto delle sue offerte a portare alla luce questo squallido tentativo. Inoltre, la giornalista di al-Watan (il maggiore quotidiano del Kuwait), Aisha al-Rashid, candidata, ha ricevuto una lettera contenente una minaccia di morte nella quale la si invitava “a occuparsi del sacro Corano e a non mischiarsi agli uomini”.

Ripercorrendo la storia degli ultimi anni, si nota che il disegno di legge che proponeva di estendere il diritto di voto alle donne era stato presentato per la prima volta nel 2004 dallo sceicco Jabir al-Ahmad al-Jabir al-Sabah, padrone assoluto del Kuwait fin dal 1978. Nel percorso tortuoso della riforma, è intercorsa anche la morte del suo ideatore ed una successione tutt’altro che tranquilla. Con una decisione senza precedenti, il Parlamento non ha ratificato l’ascesa al trono del principe ereditario, il quale ha rinunciato alla corona (ufficialmente per motivi di salute). In realtà, si è aperta una lotta per la successione all’interno della potente ed immensa famiglia al-Sabah, fino al prevalere di Sabah al-Ahmad al-Sabah che ha immediatamente sciolto il Parlamento ed indetto elezioni anticipate. Occorre sottolineare che il nuovo sceicco ha scelto di seguire la linea di apertura del suo predecessore, quando avrebbe avuto, invece, il potere di cancellare la proposta di legge; anzi, ha fatto diramare dal ministero degli Affari Religiosi una nota molto chiara con la quale si annullava una “fatwa” - ovvero una sentenza religiosa - secondo la quale risultava fra i diritti del marito indicare alla moglie il candidato da votare.

Il Kuwait è una monarchia costituzionale, nella quale il titolo di emiro è semi-ereditario, ma deve essere ratificato dal Parlamento. È il principe a nominare il primo ministro e il suo consiglio. Secondo la legge possono votare gli adulti - ora anche le donne - che siano cittadini da 30 anni e non facciano parte delle forze armate; dato che gran parte della popolazione è formata da figli di immigrati, la percentuale di votanti è estremamente bassa: parliamo di 145mila uomini e 195mila donne. Ebbene sì, le donne sono di più, rappresentano il 57% della popolazione e quindi la maggioranza degli aventi diritto al voto! Evidentemente le candidate non sono riuscite a convincere che la loro presenza nell’assemblea avrebbe rappresentato un cambiamento significativo, o a superare l’ostacolo maggiore: la maggioranza islamista conservatrice che contro questa epocale rivoluzione si è battuta. Ha dichiarato uno dei deputati islamici conservatori: “In nessun paese musulmano il Parlamento ha tanto potere come in Kuwait. L’Assemblea Nazionale è la vera testa della nazione”, e non si può certo correre il rischio di ritrovarsi un giorno, prima o poi, con una donna al comando.

Tuttavia, occorre registrare anche una lettura del fenomeno diversa, di minoranza, ma estremamente interessante. C’è chi pone l’accento sul fatto che, rispetto ad altri paesi dell’area, la condizione femminile in Kuwait non è delle peggiori: le donne possono guidare, godono di una certa libertà, alcune ricoprono ruoli importanti (come Nabeela Abdulla al-Mulla che rappresenta il Kuwait alle Nazioni Unite). Alla luce di ciò, c’è chi sostiene che quei deputati che avevano cercato di bloccare l’approvazione della legge non siano contrari alla presenza delle donne in quanto tali all’interno delle istituzioni, bensì cerchino semplicemente di evitare potenziali concorrenti. Ovvero, il motivo banale e patetico che li spinge non differisce da quello che muove molti politici italiani: l’attaccamento alla poltrona! “Il problema non è affatto religioso, culturale o di costume”, spiega la rappresentante del comitato a sostegno del suffragio femminile, “qui è in gioco il potere”.

I risultati elettorali, purtroppo, non hanno riservato sorprese; come alcune delle candidate stesse hanno ammesso: “I partiti islamici sono quelli più vicini ai sentimenti popolari e in questo momento la popolazione ha fiducia in loro”. Sono i più conosciuti e possono contare su un ampio consenso anche tra le donne. Un’ulteriore, significativa, conferma viene dall’esempio delle elezioni interne universitarie: come già noto, la stragrande maggioranza di chi compie studi superiori nei paesi arabi sono studentesse, in Kuwait rappresentano ben il 70%, eppure anche lì i conservatori islamici hanno sempre vinto. Forse non si può pretendere che alla seconda elezione a suffragio universale siano già tutti pronti alla svolta; probabilmente alla popolazione femminile non basta ottenere un diritto, occorre avere gli strumenti culturali per comprenderne a pieno l’importanza, in qualsiasi paese del mondo ci si trovi.

Una giornalista presente ad una riunione a sostegno di un candidato uomo risponde all’intervistatore: ”Sono una sostenitrice delle donne, ma non affinché vengano elette in Parlamento, è una grande responsabilità oltre a quella già rappresentata dalla gestione di una casa”. Come dire, troppo perché una donna porti a termine come si deve entrambi i compiti e, nella scelta, è chiara la preferenza. Una casalinga, invece, che indossa il “niqab” - un velo che le copre completamente il viso - racconta: “So che le donne sono costrette dai loro mariti a non votare per candidate donne, alcuni addirittura le minacciano di divorziare”. Così mentre alcune donne si battono e rischiano la propria faccia – e non solo – per rivendicare pari accesso alla gestione politica del Paese, altre, rappresentanti di alcuni gruppi di preghiera, hanno addirittura boicottato il voto, ritenendolo una forma di “libertinaggio” da svergognate.

Fa un certo effetto sentir parlare di “quote rosa” in Kuwait e in Italia quasi allo stesso tempo, ma è proprio così. Alcuni cittadini hanno proposto di destinare un certo numero di seggi alle donne per legge, ma l’idea finora non ha ottenuto molti consensi, essendo contrastata dalle donne stesse che hanno dichiarato di non volere nessuna elemosina. Anche se devono scontrarsi contro mille limitazioni e tabù (come il divieto di entrare nelle “diwaniya” - tendoni dove si svolgono le campagne elettorali dei candidati - a meno d’essere accompagnate da un uomo) sono determinate a non mollare e al prossimo rinnovamento del Parlamento ci riproveranno. Chissà che qualcosa, per allora, non sia cambiato.