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Categoria: Esteri
di Eugenio Roscini Vitali


La storia insegna che il fondamentalismo arabo-palestinese e il sionismo ebraico hanno sempre puntato, anche se in ottica e in momenti diversi, alla creazione di un solo Stato, un’entità politica totalmente dominata da arabi o ebrei. La storia insegna anche che il problema israelo-palestinese è figlio della secolare persecuzione subita dal popolo ebraico, della trasformazione del sentimento antiebraico in antisemitismo avvenuta nella seconda metà del XIX secolo e dalla sconsiderata spartizione del Medio Oriente decisa a tavolino dai vincitori della Grande guerra. La storia più recente insegna poi che gli sforzi fatti dalla comunità internazionale affinché i due popoli sottoscrivessero una pace condivisa sono stati vani, soprattutto perché le proposte prevedono la creazione di due Stati e grandi rinunce ma non assicura la soluzione del problema. A questo si aggiunge la manipolazione indiscriminata che alcuni personaggi della politica internazionale fanno del problema israelo-palestinese; un uso smodato della retorica e della morale che spesso rasenta il cinismo più assoluto.
Un esempio? Proprio in questi giorni abbiamo assistito ad un esemplare duello combattuto a distanza da due maestri della Realpolitik: il presidente americano George W. Bush e il leader iraniano Mahmoud Ahmadinejad (li elenco in ordine di apparizione più che in base al merito). Rifuggendo da ogni forma d’illusione romantica, i due Capi di Stato hanno voluto dare una lezione di pragmatismo politico, rimarcando scelte ed opinioni basate più su questioni pratiche piuttosto che su principi universali ed etici. In pratica, nutrendosi l’uno dell’altro hanno preso a calci ogni idea di pace.

Durante la sua ultima visita in Medio Oriente, George W. Bush ha rinnovato l’eterno appoggio americano al Paese ebraico, confermando che per gli americani Israele rimane e rimarrà per sempre la terra del popolo eletto. Nel suo discorso alla Knesset non ha fatto alcuna pressione affinché arabi ed ebrei raggiungano un se pur minimo compromesso e piuttosto che delle aspirazioni palestinesi ha preferito parlare ancora una volta di estremismo radicale e di terrorismo, dimenticando ancora una volta che nella Striscia di Gaza è tenuto prigioniero un milione e mezzo di civili e che la Cisgiordania è occupata da più di 50 anni.

Di fronte ad un simile esempio di diplomazia era quasi impossibile che il presidente Mahmoud Ahmadinejad perdesse l’occasione per non dare il suo prezioso contributo alla pace e così, dopo qualche settimana, parlando dal summit sulla crisi alimentare globale organizzato a Roma, è tornato ad attaccare i nemici storici della Repubblica islamica: Stati Uniti ed Israele. Ahmadinejad ha annunciato che “presto lo Stato ebraico scomparirà dalle cartine geografiche” ed ha aggiunto che alla gente piace ciò che dice, perché è così che “la gente si salverà dalle imposizioni dei sionisti. Gli europei hanno sofferto grandi danni dai sionisti e oggi i costi di questo regime falsificato, che siano politici o economici, sono sulle spalle dell'Europa".

Intanto, mentre i giocolieri della diplomazia internazionale gettano benzina sul fuoco e scavano trincee sempre più profonde, il problema israelo-palestinese rimane. Il cessate il fuoco e lo scambio di prigionieri proposti dall’Egitto sarebbero senza dubbio un grosso passo avanti a patto che vengano accompagnati da una reale volontà di pace. La prima cosa da affrontare è certamente la forma di covivenza. Per molti l’unica soluzione possibile rimane quella del doppio Stato: da una parte gli ebrei, dall’altra gli arabi, come deciso dalle Nazioni Unite 60 anni fa. Dopo essere annegata nel sangue delle guerre arabo-israeliane, l’idea di due popoli che vivono pacificamente l’uno a fianco all’altro torna in auge negli anni ottanta come unica proposta dei governi occidentali. Appoggiata da Israele e inizialmente sostenuta dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e da Fatah, la spartizione del territorio sarebbe stata possibili però prima della guerra del 1967; prima che le Forze di Difesa Israeliane (IDF) occupassero la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. E’ quello il momento in cui la questione israelo-palestinese è diventato un problema veramente irrisolvibile, a meno di grandi sacrifici e rinunzie.

La Guerra di Indipendenza del 1948 era terminata con la teorica spartizione della Palestina. Cinquemila chilometri quadrati suddivisi tra Giordania (Gerusalemme est e l’attuale parte di territorio conosciuto come West Bank o Cisgiordania) ed Egitto (la Striscia di Gaza), il futuro Stato palestinese; 21 mila chilometri quadrati in mano agli ebrei, lo Stato di Israele. Il sacrificio arabo era stato impressionante: 700 mila palestinesi sradicati dalla loro terra; più di 500 villaggi distrutti; interi quartieri urbani svuotati per dare spazio agli ebrei. A quel punto l’unica via d‘uscita era quella dei due Stati, almeno fino alla Guerra dei Sei giorni quando le IDF presero il controllo di Gerusalemme est, Cisgiordania, Striscia di Gaza, alture del Golan e Sinai: il sogno del Grande Israele si stava avverando. Fu così che i sionisti più oltranzisti diedero inizio ad un’altra devastante campagna di colonizzazione e i territori occupati, ad eccezione del Sinai poi restituito all’Egitto, divennero un alveare di insediamenti. Quando alla fine degli anni ottanta tornò in auge la soluzione dei due Stati era ormai impossibile realizzare una Palestina abitata da soli arabi e un Israele che fosse patria per i soli ebrei; il progetto che prevedeva un nazionalismo etnico era ormai fuori dal tempo.

Secondo una corrente di pensiero che coinvolge intellettuali arabi, ebrei ed occidentali, il processo di pace israelo-palestinese nato con gli accordi di Oslo è morto, e con lui il sogno del doppio Stato. Nel 2002 l’attivista palestinese di nazionalità britannica Ghada Karmi aveva affermato che l’unica soluzione per risolvere la controversia è la creazione di un’unica nazione, uno Stato democratico e laico. A questa tendenza si sono uniti in seguito personaggi della cultura occidentale come Tony Judt, professore di storia all’Università di New York, che a partire dal 2003 ha posto sul tavolo della politica internazionale l’idea del singolo Stato. Secondo Judt questa soluzione è già in atto in quanto l’occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gerusalemme est deve essere considerata de facto come un’annessione che oltre ad impedire la nascita di uno Stato palestinese realmente autonomo, rappresenta la creazione di un’entità politicamente controllata da Israele. L’idea di unico Stato deve comunque tenere in considerazione il diritto al ritorno dei profughi palestinesi, un dramma che coinvolge quasi sei milioni di persone e che rischia da solo di soffocare qualsiasi soluzione.

Qualsiasi soluzione venga affrontata deve comunque fare i conti con il problema demografico: attualmente in Israele convivono 5,4 milioni di ebrei e 1,3 milioni di arabi; la Cisgiordania e la Striscia di Gaza contano più di 3 milioni di palestinesi. Arnon Sofer, geografo all’Università di Haifa, sostiene che entro il 2020 la regione sarà abitata da 15 milioni di individui: 6,5 milioni di ebrei e 8,5 milioni di arabi. A questo punto, se Israele vuole mantenere il controllo dei territori occupati e sostenere la presenza degli insediamenti è costretto ad espellere gran parte degli arabi presenti in Cisgiordania o aumentare le spese militari (l’area è già divisa in 64 zone controllate con più di 500 check-points) fino a strozzare l’economia del Paese. In caso contrario dove ritirarsi all’interno dei confini stabiliti prima del 1967 sperando che gli oltre 400 mila israeliani che attualmente occupano gli insediamenti decidano di abbandonare ogni cosa. Ariel Sharon era già riuscito ad imporre questa soluzione nella Striscia di Gaza ma la Cisgiordania e Gerusalemme est sono tutta un’altra cosa, sia politicamente che sotto l’aspetto degli investimenti; una azione di forza innescherebbe un dramma ideologico ed economico di tale portata che il Paese rischierebbe di essere travolto da una guerra civile.