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Categoria: Esteri
di Fabrizio Casari

Ingrid Betancourt è libera. Dopo più di sei anni di prigionìa nella giungla colombiana, la senatrice pacifista e ambientalista, divenuta da anni una icona della lotta per una Colombia diversa, è tornata ad abbracciare i suoi cari e quanti, in questi anni, per la sua liberazione si erano battuti senza sosta. Un’operazione d’intelligence dell’esercito colombiano ha riportato a casa lei ed altri quattordici ostaggi in mano alle Farc, tra i quali tre militari statunitensi e dieci militari colombiani. La liberazione di Ingrid Betancourt è una di quelle notizie che fanno bene. A tutti coloro che credono che qualunque conflitto non possa avere come vittime principali gli innocenti, a coloro i quali ritengono che il sequestro di chi a quella guerra è estraneo sia solo una odiosa manifestazione di debolezza isterica e, soprattutto, a quanti pensano che anche la più dura delle guerre dovrebbe avere delle regole comportamentali, prima fra tutte quella di saper distinguere tra belligeranti e testimoni, tra colpevoli e innocenti, tra nemici e vittime. La dinamica della liberazione degli ostaggi è ancora oggetto di approfondimento, data la riconosciuta fama delle autorità colombiane nela guerra mediatica; non è ancora chiaro, infatti, se le FARC abbiano o no in qualche modo “favorito” il rilascio dei prigionieri - come da più parti, ultima la voce del Presidente Chavez - gli veniva chiesto o se, invece, abbiano semplicemente subìto una sconfitta sul piano dell’intelligence perdendo così il "jolly” più importante nelle loro mani. Quel che è certo, però, è che il governo colombiano ha segnato un punto importantissimo nella guerra mediatica che rafforza la posizione del rifiuto negoziale di Bogotà e Washington e potrebbe rivelarsi utilissimo come battistrada per l’ipotesi di ricandidatura di Uribe ad un nuovo mandato presidenziale.

Per la liberazione di Ingrid Betancourt hanno lavorato in molti, in primo luogo Venezuela e Francia; spesso - va ricordato - con l’opposizione sostanziale e formale del governo colombiano, proteso nel tentativo d’impedire la concretizzazione di un percorso che, dal negoziato sul rilascio dei prigionieri fino alla smilitarizzazione di una parte del Paese, potesse in qualche modo dare credito ad uno scenario più ampio di soluzione politica del conflitto.

Ma sia Parigi che Caracas hanno continuato negli ultimi anni a premere sia sul governo colombiano che sulla guerriglia, per ottenere il rilascio della Betancourt. Ultimamente, alla luce del fallimento del negoziato a tre (Colombia, Venezuela e FARC) e dopo l’aggressione di Bogotà in territorio ecuadoregno costata l’uccisione di Raul Reyes, il “ministro degli Esteri” delle FARC, alla quale si aggiunse la notizia della morte di Manuel Marulanda, (detto Tiro Fijo) fondatore e leader indiscusso delle FARC, il presidente Chavez aveva chiesto ai guerriglieri il “rilascio senza condizioni” dell’ostaggio, aggiungendo che “la guerriglia non è più di moda”, intendendo con ciò che non é più attuale come forma di lotta, e concludendo che essa “fornisce ormai solo il pretesto alla reazione per muovere politiche aggressive e minacciose contro i paesi democratici”.

Le parole di Chavez hanno gettato sconcerto nella parte della sinistra latinoamericana più vicina alle ragioni storiche della guerriglia colombiana, che hanno accusato il presidente venezuelano di scarsa obiettività nell’analizzare le motivazioni storico-politiche di quel conflitto, ricordandogli peraltro come le centinaia di prigionieri nelle carceri colombiane non ricevessero uguale attenzione, non omettendo poi come ogni tentativo di legalizzazione della lotta politica per il cambiamento in Colombia fosse stata lastricata dai cadaveri delle migliaia di oppositori e delle centinaia di dirigenti politici della sinistra colombiana che avevano ritenuto praticabile il cammino della lotta politica legale e alla luce del sole. Del resto – questa la tesi dei critici di Chavez - se era alle minacce colombiane e statunitensi al Venezuela il riferimento di Chavez, l’interventismo statunitense nel continente non ha mai - storicamente - avuto bisogno di “scuse” per scatenare guerre ed invasioni verso le esperienze democratiche e socialiste nel subcontinente.

Critiche discutibili e, per molti aspetti, frutto di tesi in buona parte sganciate dal contesto attuale del continente; ma fatto sta che Chavez, che pure avrebbe potuto e dovuto argomentare in modo diverso e con parole adeguate quelle che sono comunque considerazioni condivisibili se inserite in un ragionamento più ampio circa il futuro dell’America latina, è rimasto comunque tagliato fuori dalla gestione del negoziato per la liberazione di Ingrid Betancourt. Insieme a lui, Parigi, che nel corso di questi anni con il governo di Bogotà - ripetutamente accusato quanto meno d’inerzia - aveva aperto un braccio di ferro rivelatosi inutile, prima ancora che perdente.

Per la guerriglia colombiana, dalla quale al momento non giungono comunicazioni sulla dinamica del blitz dell’esercito colombiano, la liberazione di Ingrid Betancourt e degli altri ostaggi – se non da loro voluta e in parte realizzata - rappresenta oggettivamente l’ennesimo rovescio di questi ultimi mesi. Per il nuovo gruppo dirigente, guidato da Alfonso Cano (che ha preso il ruolo di Marulanda) si annuncia una fase di riflessione profonda e di ricollocazione politica, prima ancora che militare, del ruolo delle FARC. Isolate e scosse dagli ultimi avvenimenti, in una situazione obiettivamente difficile di riassetto della catena di comando e della loro organizzazione interna, più che alla vigilia di una offensiva politica, militare e mediatica, le FARC appaiono oggi prigioniere della loro stessa storia e di una prospettiva quanto mai lontana.

Dall’altra parte del conflitto, si tratta ore di vedere come Uribe tenterà di capitalizzare la liberazione della Betancourt, che in considerazione della sfrenata ambizione politica e della non minore vanità personale, potrebbe spingerlo a forzare ulteriormente sul piano politico-costituzionale per proseguire sulla poltrona presidenziale. Il consenso popolare di cui comunque gode, il sostegno incondizionato di Washington da cui prende ordini quotidiani ed una rinnovata immagine internazionale che la liberazione degli ostaggi gli procurerà, sono gli elementi di cui si gioverà per riproporsi come figura indispensabile al processo di normalizzazione della Colombia. Con che mezzi e con che scopi, poi, è relativo, dal momento che sono quelli decisi a Washington e applicati a Bogotà. La Colombia può attendere.