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Categoria: Esteri
di Eugenio Roscini Vitali

La linea di confine che fino a qualche anno fa separava la Cecenia dall’Inguscezia e, al tempo stesso, divideva una tragica guerra da una falsa idea di pace e stabilità, si è definitivamente frantumata. La terra che Putin voleva trasformare in “modello caucasico di sicurezza” è diventata una polveriera intrisa di odio, vendetta, omicidi, torture e sparizioni, una sporca guerra che ripropone i metodi e le strategie già viste a Grozny, Selkovskaja, Urus-Martan, Urdjuchoj, Dechesty. Per i russi l’Inguscezia si è trasformata in un nuovo laboratorio dove l’esercito mette a punto le sue contromisure all’insurrezione, dove la giustizia lascia impuniti i responsabili delle repressioni, dove la politica rispondere alla resistenza con la sistematica violazione dei diritti umani. Le strade di Nazran, Karabulak, Malgobek non emanano più solo l’odore della miseria, della corruzione e della povertà; ora in Inguscezia si respira la stessa aria del Caucaso, quella impregnata di morte, sangue e di paura. Per farsi un’idea di quello che nell’arco di qualche anno potrebbe accadere in Inguscezia basta guardare alla Cecenia e alle sue due guerre: secondo alcune stime, quattordici anni di conflitto hanno causato circa 300 mila vittime; a questo genocidio vanno aggiunti i tremila civili scomparsi nel nulla, le migliaia di prigionieri rinchiusi nei centri di detenzione e gli oltre 25 mila soldati russi morti tra le prima e la seconda guerra. I governi fantoccio imposti da Mosca e la sistematica violazioni dei diritti umani, alla quale ha fatto seguito la cronica impunità per coloro che li hanno commessi, non hanno fatto altro che inasprire la situazione e a nulla sono valse le tecniche anti-insurrezione utilizzate dall’esercito russo.

La Cecenia è così diventata un modello di instabilità che ha lentamente, ma inesorabilmente, coinvolto l’intero Caucaso settentrionale, compresa la vicina Repubblica d’Inguscezia. Qui si torna a parlare di sistematica violazione dei diritti umani: fermi illegali, detenzioni arbitrarie, torture, crudeltà, sparizioni, esecuzioni sommarie e brutale repressione russa. La combinazione rievoca sicuramente i primi fatti ceceni e rafforza il ruolo dei ribelli islamici del Caucaso che hanno come obbiettivo la sconfitta delle truppe russe di occupazione ed il rovesciamento del governo filo russo.

Le violenze iniziano nel 2002, quando in Inguscezia vivono 150 mila rifugiati ceceni, più o meno la metà della popolazione ingusci. Nel dicembre di quell’anno la capitale viene spostata da Nazran a Magas; il popolo ingusci ha già sofferto le deportazioni di massa ordinate da Stalin durante la Seconda guerra mondiale, si è visto strappare il Distretto di Prigorodny, trasferito alla confinante Ossezia Settentrionale, ha vissuto la feroce repressione interetnica che ha sconvolto il Caucaso settentrionale all’indomani del crollo dell'Unione Sovietica. Ora paga l’insuccesso russo in Cecena.

La repressione aumenta con l’andare del tempo, con l’aumentare della concentrazione delle truppe inviate da Mosca per combattere i gruppi separatisti attivi nelle repubbliche russe del Caucaso, con la creazione di un’elite dirigente che risponde alle esigenze del Cremlino, con l’isolamento di coloro che non si piegano al nuovo sistema, con la disoccupazione crescente, la corruzione ed il clientelismo portato all’ennesima potenza.

Dalle montagne la guerra cecena scende in pianura ed oltrepassa il confine, i ribelli ceceni si uniscono ai guerriglieri ingusci: blitz notturni, irruzioni nelle case dei collaborazionisti, attacchi improvvisi contro i posti di polizia, rapimenti di cui si perde ogni traccia. Nel giugno 2004 la repressione diventa guerra: 200 combattenti indipendentisti ceceni entrano in Inguscezia e attaccano le truppe russe e le forze governative: al termine della clamorosa operazione militare si contano circa 90 morti e più di 200 feriti. L’incursione vede riuniti in un unico e coordinato gruppo di fuoco gli indipendentisti ceceni di Maskadov, gli islamisti di Basaev e la resistenza ingusci; il conflitto diviene regionale e le truppe russe, colte di sorpresa, iniziano a bombardare i villaggi e le campagne; i boschi che circondano Nazran vengono rasi al suolo; l’aviazione e l’artiglieria martellato i presunti nascondigli della guerriglia.

L’Inguscezia inizia ad assomigliare alla Cecena; le truppe russe e le forze di sicurezza uccidono, rapiscono e torturano i civili. Questo non ferma gli attacchi della guerriglia: agguati contro i funzionari pubblici, assalti a colpi di granate contro i blindati e i posti di polizia. In questo contesto di crescente instabilità, i russi e le forze di sicurezza rafforzano la loro pressione: esecuzioni extragiudiziali, violenze di ogni genere e abusi commessi contro la popolazione civile. Tra il 2007 ed il 2008 le operazioni antiterrorismo diventano una pratica di routine, i villaggi vengono occupati e rastrellati, le irruzioni nelle case e le perquisizioni a tappeto non si contano; le detenzioni dei sospettati di insurrezione si trasformano in rapimenti ai quali fanno seguito torture e, talvolta, sparizioni mai indagate.

Con la scusa di possibili “azioni armate ai danni delle forze di polizia” e con l'utilizzo pretestuoso della norma “sul contrasto al terrorismo”, è ormai prassi consolidata che i servizi segreti russi e il presidente Murat Magometovich Zyazikov concedano alle forze di sicurezza quei “poteri speciali” che, di fatto, rendendo gli autori delle violazioni dei personaggi praticamente intoccabili. Da ex uomo del Kgb, Zyazikov pensa che per rendere stabile un regime è necessario eliminare l’opposizione e quindi si comporta di conseguenza: blinda il Paese e ordina la soppressione di ogni forma di protesta o la trasforma in un pretesto per sguinzagliare le forze anti-sommossa.

La sua polizia di Stato arresta, intimidisce, minaccia ed espelle gli osservatori indipendenti, i media, i reporter ed i fotografi: tra le vittime ci sono i collaboratori del centro per la difesa dei diritti umani “Memorial”, i dipendenti di TV e radio moscovite, i giornalisti del settimanale indipendente Novaja Gazeta e del quotidiano moscovita Zizn, i fotoreporter dell’agenzia di stampa RIA Novosti. A nulla valgono le denunce fatte dalle organizzazioni per i diritti umani e a nulla serve sapere che la persecuzione non fa altro che generare estremismo. La Russia non è il Sudan e il Caucaso settentrionale non è il Darfur. L’Inguscezia è tragicamente destinata a diventare una nuova Cecenia, un nuovo girone dantesco del personale inferno caucasico di Vladimir Putin.