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Categoria: Esteri
di Carlo Benedetti

MOSCA. Per i georgiani è una “annessione” inaccettabile; per gli americani “uno strappo che avrà gravi conseguenze favorendo anche una serie di analoghe rivendicazioni in Europa e nel mondo”; per il governo di Ksinkvali “è la giusta conclusione di una battaglia per l’autonomia e l’indipendenza”; per la dirigenza di Suchumi “è la fine più ovvia di un conflitto che si è protratto per troppo tempo”; per la Russia di Medvedev e di Putin “è un importante passo in avanti per la pace e l’equilibrio della regione caucasica”. E’ questo il primo ventaglio delle reazioni alla decisione del Cremlino che sancisce il riconoscimento della Ossezia del Sud e dell’Abchasia che, da oggi, sono per Mosca due “ex autonomie georgiane”. Non più sotto la giurisdizione di Tbilisi e libere di gestire il loro territorio sotto tutti i punti di vista. Ottenendo, di conseguenza, pieno appoggio e aiuto da parte della Russia. Ma è proprio in conseguenza di questi ultimi avvenimenti - che seguono la scellerata e criminale guerra di aggressione scatenata dall’uomo degli Usa, il presidente georgiano Saakasvili - che sia la geopolitica russa che quella europea vengono a trovarsi di fronte ad una situazione che è mutata radicalmente mettendo in subbuglio una costellazione di forze e di coalizioni. Perchè se da un lato nelle strade dell’Ossezia (questa volta del Sud e del Nord praticamente unite) e dell’Abkhazia si grida alla vittoria e si approntano i piani di una costruzione “statale”, dall’altro lato nei corridoi del Cremlino si fanno i conti con un futuro che si annuncia sempre più carico di trasformazioni progressive e di cambiamenti non indifferenti quanto ad equilibri etnici e sociali. Per non parlare del contenzioso che si apre non tanto con la Georgia, ma con chi si trova alle spalle di Saakasvili. E cioè l’America di Bush.

Ecco perché Mosca, pur se “costretta” dall’andamento degli avvenimenti a prendere una decisione epocale, si trova a vivere in una atmosfera di “smarrimento generale”, di disorientamento e, perchè no, anche di paura. Una paura che avanza e che si chiama ritorno alla guerra fredda. E questa volta non c’è quello che un tempo si autodefiniva come “Blocco dell’Est” (forte anche di una forza militare come quella del “Patto di Varsavia”) perché c’è solo una potenza che si oppone alla politica americana. E’ la Russia di Medvedev-Putin, che non ha trovato ancora alleati. Al momento - sul piano diplomatico internazionale - riceve solo gli applausi degli abkhazi e degli ossetini.

E così il Cremlino vive in uno stato di assedio e non trova ancora soluzioni alternative che possano ricomporre il già difficile rapporto con l’Ovest e con gli Usa in particolare. Intanto le navi americane arrivano nel mare Nero per pattugliare lo specchio che va da Sukumi a Batumi. E ai russi della Flotta basata nelle acque controllate dagli ucraini non resta che chiedere il permesso a Kiev per arrivare nell’area della crisi.

La Georgia alza la testa e da fuoco alle polveri del nazionalismo. Entra in scena un personaggio (finanziato dalla Cia e dal miliardario Soros) che si chiama Giga Bokeria e che è attualmente vice ministro degli Esteri. E’ lui che prende in mano la bandiera della lotta contro la Russia mettendo da parte un presidente come Saakasvili che, con tutta probabilità, ha già fatto il suo tempo e che gli americani (forse) si preparano a scaricare.

Come risposta alle accuse che vengono da Washington e dall’intelligence americana Mosca minaccia ora la chiusura all'Alleanza Atlantica del transito per l'Afghanistan e mostra ancora i muscoli annunciando test di lancio di missili balistici intercontinentali. Questo vuol dire che la Russia dopo la sfida lanciata alla Nato ("possiamo farne a meno") e al Wto (congelamento di alcuni impegni già presi) sposta la sua attenzione sul Mar Nero, dove il crescente numero di navi dell'Alleanza (sono per ora 18 e tra queste il cacciatorpediniere USS Mc Faul) suscita - come precisa un comunicato della diplomazia russa - lo “sconcerto” di Mosca che mette in dubbio la natura umanitaria del carico delle navi da guerra Usa.

Ecco, quindi, che la logica degli schieramenti regna sovrana. Ma sia a Tbilisi che a Mosca vengono avanti anche posizioni di contrasto. Molti georgiani vedono un futuro che non suscita entusiasmi. E molti sono i russi preoccupati per il ritorno al confronto diretto con l’Ovest e, soprattutto, allo scontro con una nazione considerata sino a ieri un avamposto di quella che in tempi sovietici si chiamava “amicizia tra i popoli”.

Ora, nel pieno della crisi e al fine di gettare ombre sul governo di Tel Aviv (che viene accusato di aver fornito armi ai georgiani), compaiono nelle redazioni di Mosca alcune “veline” destinate a far “riflettere” l’opinione pubblica. Si rende noto che in Israele sono al governo due ministri georgiani con in tasca il passaporto israeliano: sono Temur Yakobashvili, del dicastero della “reintegrazione territoriale” e David Kezerashvili, che dirige il gabinetto della Difesa: e questo vuol dire che i due sono considerati come i responsabili diretti delle azioni contro le due provincie russofone dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud. Le fonti russe, inoltre, mettono in evidenza che l’esercito georgiano sarebbe stato rifornito in questi ultimi tempi da sistemi bellici fabbricati in Israele: “Veicoli teleguidati (RPV), torrette automatiche per veicoli corazzati, sistemi anti-aerei, sistemi di comunicazione, proiettili d’artiglieria e razzi”. Il fronte, di conseguenza, si allarga. Nel mirino di Mosca oltre a Washington c’è anche una resa dei conti con Israele. Calcoli e disegni si complicano.