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Categoria: Esteri
di Luca Mazzucato

Le elezioni americane si avvicinano a grandi passi e i sondaggi sono incerti. È ovvio che i due candidati Barack Obama e John McCain cerchino di attirarsi le simpatie delle varie lobby e minoranze, seguendo la ricetta vincente di Bush, che nel 2004 passò grazie al voto in massa dei fondamentalisti evangelici. Questa volta nessuno dei due candidati, entrambi di stampo liberal, è particolarmente amato dai cristiani, mentre i latinos hanno già deciso di votare democratico. Resta da decidere il voto della popolosa comunità ebraica degli Stati Uniti: storicamente democratica, amava i Clinton, ma è poi passata dalla parte di Bush per via di Saddam e della questione iraniana. A chi andranno i voti ebraici nelle elezioni di novembre? Agli americani in genere importa assai poco della politica estera, men che meno in periodo di crisi economica. L'ultima visita di Bush in Medioriente ha occupato un misero tre percento di copertura sul totale delle news. La comunità ebraica, al contrario, è forse la più sensibile alle questioni estere e i candidati si danno da fare per accattivarsela. Tutto è cominciato in gennaio, quando infuriavano le primarie e iniziava a circolare voce che Barack Hussein Obama fosse - God forbid! - musulmano. Galeotta fu la foto che ritraeva Obama con quello strano copricapo rituale somalo (suo padre è kenyota), tanto che vari giornali mandarono in stampa “Gli scioccanti legami di Obama con Al-Qaeda.” La questione della foto è molto seria e probabilmente peserà sul risultato elettorale, aiutata dai continui e involontari lapsus di numerosi annunciatori televisivi repubblicani, soprattutto della Fox News, che sistematicamente lo introducono come “Barack Osama” o “Barack Hussein.”

La questione del voto ebraico dunque si è fatta pressante per la campagna democratica. Per fugare le voci sul suo “cripto-islamismo” o sul suo mancato supporto a Israele, Obama scriveva in gennaio una lettera all'ambasciatore americano all'ONU, in cui lo esortava ad “assicurarsi che non passi alcuna risoluzione del Consiglio di Sicurezza che non condanni pienamente gli attacchi Qassam su Israele.” Ma la lotta per accaparrarsi le simpatie della comunità ebraica è entrata nel vivo in giugno, il giorno in cui Obama ha vinto le primarie del Partito Democratico. Il teatro: la conferenza annuale dell'AIPAC (American Israel Public Affairs Committee), la potente lobby pro-israeliana al Congresso degli Stati Uniti. Tutti i principali esponenti politici americani vi hanno partecipato e McCain non ha perso occasione per attaccare Obama sull'Iran, tra i continui applausi della folla. Nonostante la comunità ebraica abbia sempre appoggiato i candidati democratici, questa volta la questione dell'atomica iraniana l'ha di fatto sbilanciata verso i repubblicani, aiutata dal fatto che McCain non si riconosce nella destra religiosa (e spesso anti-semita) come l'attuale presidente in carica. Come se non bastasse, il senatore democratico Joe Lieberman, rappresentante storico della comunità ebraica, ha annunciato il suo appoggio a McCain ed è persino tra i suoi papabili vicepresidenti.

Alla riunione dell'AIPAC è cominciata la rincorsa del candidato democratico. Subito dopo essere stato nominato candidato ufficiale dei democratici, Obama ha rotto il ghiaccio dichiarando: “Farò qualsiasi cosa in mio potere per impedire all'Iran di ottenere armi nucleari. Qualsiasi cosa.” Lasciandosi prendere la mano, ha poi concluso che “Gerusalemme resterà la capitale indivisibile dello Stato di Israele,” dimentico del fatto che nessun paese riconosce Gerusalemme come capitale e il suo status è ancora oggetto di negoziati tra israeliani e palestinesi, come ribadito nelle ore successive da un insolitamente furioso Abu Mazen in conferenza stampa da Ramallah. Obama ha anche ricordato che la priorità americana è “liberarsi dalla tirannia del petrolio, i petro-dollari che pagano le armi che uccidono le truppe americane e i cittadini israeliani.” Non è però chiaro se si riferisse all'amministrazione Bush con i suoi amici sauditi o all'Iran. Insomma, pochissimi cenni ai negoziati di pace, che non rientrano comunque nell'agenda dell'AIPAC.

Ma il punto cruciale della strategia di Obama è stato il viaggio in Medioriente di fine luglio, con una frenetica due-giorni israeliana in cui Obama non si è risparmiato alcun incontro, a uso e consumo dei suoi concittadini ebrei. A Sderot, dopo la fotoricordo al deposito dei razzi Qassam esplosi nella cittadina, ha ribadito che “Israele ha ogni diritto di difendersi contro gli attacchi sui propri civili,” poi è andato a Gerusalemme, proprio nel momento in cui un folle arabo-israeliano alla guida di un bulldozer faceva strage di civili nel centro della città; dove Obama ha colto al volo l'occasione per confermare che “bisogna fare di tutto contro il terrorismo” (si è poi scoperto che i due presunti attentatori delle stragi col bulldozer avevano in realtà gravi problemi psichiatrici e non erano affiliati ad alcuna fazione palestinese). Dopo aver deposto una corona di fiori allo Yad Vashem, il Museo dell'Olocausto, è andato alla città vecchia dove, con la kippah sulla nuca, ha infilato un bigliettino tra le fessure del Muro del Pianto, come prescrive la tradizione ebraica, per chiedere aiuto a Dio. Dopo pochi secondi, un giovane audace armato di videocamera ha individuato il biglietto accartocciato e lo ha prelevato e venduto a un giornale, attirandosi le ire dei rabbini e sollevando un vespaio di polemiche per il grave sacrilegio. Come si è poi scoperto, Obama aveva chiesto semplicemente aiuto per la sua famiglia contro le tentazioni “dell'orgoglio e della disperazione” e di essere “strumento della sua volontà.”

Il tour politico ha coperto tutto l'arco costituzionale: da Olmert e Barak alla Livni, poi Peres e infine anche Netanyahu, nessuno dei papaveri israeliani ha perso l'occasione di farsi immortalare con il candidato democratico, dopo avergli fatto ripetere ogni volta che “contro l'Iran l'America lascia tutte le opzioni sul tavolo.” Una brevissima visita a Ramallah, trenta minuti di colloquio con Abu Mazen in cui non si è fatto alcun cenno delle sue controverse dichiarazioni sul futuro di Gerusalemme, mentre Obama ha ricordato che punterà sui negoziati “sin dal primo giorno nello studio ovale.” Alla fine della visita, è stato chiaro per tutti che in realtà a Obama poco o niente interessava di Israele e il suo sguardo è sempre stato rivolto ai suoi potenziali elettori ebrei-americani. E a quanto pare, la tattica ha dato alcuni frutti: il comitato di esperti - “The Israel Factor” - che si occupa delle elezioni americane per il quotidiano israeliano Ha'aretz, continua a dare Obama in rimonta su McCain settimana dopo settimana. Da uno a dieci nella classifica di chi è meglio per Israele, McCain totalizza sette punti, in calo dagli otto del mese scorso, mentre Obama è in crescita oltre quota cinque.