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Categoria: Esteri
di Fabrizio Casari

La tensione tra Venezuela e Bolivia da un lato e Stati Uniti dall’altro non pare destinata a ridursi. All’espulsione degli ambasciatori statunitensi da La Paz e Caracas, Washington ha risposto con eguali misure nei confronti dei diplomatici dei due paesi latinoamericani, con ciò riaffermando un meccanismo scontato nella prassi diplomatica. Ma il meccanismo azione-reazione, se ha una sua logica nella fisica, non sempre ce l’ha in politica e, meno ancora, nelle relazioni internazionali. Quella in corso non è una diatriba diplomatica, ma uno scontro politico di dimensioni ampie, che ha origine nell’ingerenza pesante del governo statunitense negli affari interni di tutti i paesi latinoamericani in generale, di quelli con governi progressisti in particolare. Nel caso specifico della Bolivia, l’ambasciatore statunitense, Philip Goldberg, ha promosso, diretto e finanziato la rivolta delle elites bianche nelle regioni ricche del Paese, ostili alla presidenza di Evo Morales. L’ostilità, ad essere precisi, andrebbe declinata con un termine forse non più di moda, ma non per questo meno esplicativo: odio di classe. Solo negli ultimi tre giorni di scontri, sono nove i contadini uccisi dalle armi dei sostenitori dei governatori locali, che attaccano persino i reparti di polizia a difesa delle sedi istituzionali. Evo Morales, presidente reduce da una vittoria referendaria risultata più che altro una riconferma trionfale al suo operato, ha dichiarato lo stato d’assedio nelle province ribelli, ma non sembra disposto ad inviare l’esercito per ripristinare l’ordine. Ma non poteva più tollerare l’atteggiamento ed il comportamento da proconsole dell’impero con cui Goldberg esercitava le sue funzioni.

Più che alla convenzione di Vienna sembrava rifarsi alla Dottrina Monroe, il diplomatico a stelle e strisce già attivissimo in Kosovo durante la secessione da Belgrado. Proprio per i suoi trascorsi kosovari, del resto, era stato inviato in Bolivia e proprio con lo stesso modus operandi pensava di replicare nelle Ande quanto già avvenuto nei Balcani. Aveva fatto male i conti, soprattutto confondendo lo spirito dialogante di Evo con una sua presunta debolezza politica.

Per quanto riguarda il Venezuela, pur con uno spartito diverso da quello boliviano, la musica è la stessa. L’ambasciatore Patrick Daddy è infatti accusato dalle autorità venezuelane di aver collaborato all’intento golpista recentemente scoperto dai servizi segreti di Caracas e che ha portato, tra gli altri, all’arresto di un Generale di Brigata e di un Maggiore delle Forze Armate venezuelane. Niente di cui stupirsi, dal momento che Washington non ha mai smesso di cospirare – d’accordo con la Confindustria locale e alcuni governatori – contro il governo di Hugo Chavez, cercando di alzare la tensione interna per condurre il Venezuela verso una guerra civile, esattamente come in Bolivia e come in Nicaragua, quest’ultimo anch’esso vittima di una escalation di aggressioni mediatiche e politiche contro il Presidente Daniel Ortega.

Identici schemi per identiche politiche: appoggiare in ogni modo, finanziando e organizzando dall’esterno e dall’interno, le braccia mercenarie delle elites locali al fine di alzare il livello dello scontro fino alla soglia della guerra civile, in attesa che la risposta del governo per ripristinare l’ordine interno possa far gridare alla repressione e quindi, sostenuti dalla grancassa mediatica, tentare d’intervenire direttamente a ripristinare le oligarchie sulle poltrone da dove il voto democratico li aveva cacciati.

Ma le difficoltà di Washington in America Latina sono molto maggiori di quanto non lo fossero precedentemente. La stagione della riscossa democratica del continente, iniziata con la vittoria di Lula in Brasile e di Kirschner in Argentina, proseguita con quelle di Chavez in Venezuela, Tabarè Vasquez in Uruguay, Ortega in Nicaragua, Torrijos a Panama, Morales in Bolivia, Bachelet in Cile e Correa in Ecuador e conclusasi con Lugo in Paraguay, disegna con nettezza un’America latina progressista e affrancata dal Washington consensus con il quale gli Usa avevano pensato di poter continuare a dominare il continente a seguito della fine della stagione delle dittature militari fasciste con le quali il gigante del Nord aveva tenuto sotto il suo tallone le americhe. Lunedi, a seguito della crisi diplomatica con gli Usa, è stato convocato un vertice dei paesi latinoamericani, fatto inedito e gravido di considerazioni positive in ordine alla sovranità continentale dell’ormai ex “giardino di casa”.

Non si tratta dunque, come suggeriscono i media italiani, sempre pronti a non capire, occupati come sono ad obbedire, di una crisi di leadership statunitense determinata dalla virata dell’attenzione militare e politica verso Iraq e Afghanistan. Perché è il nuovo assetto latinoamericano, prima che il mutato interesse geopolitico di Washington ad aver cambiato le regole del gioco. Se addirittura l’Honduras, storicamente considerato una portaerei Usa in Centroamerica, prima aderisce all’Alba e ora congela le relazioni diplomatiche con Washington in solidarietà con Bolivia e Venezuela, è chiaro che il dominio statunitense nel continente è progressivamente scemato.

Ciononostante, il dispiegamento della Sesta flotta statunitense – smantellata nel 1950 e ora riproposta con scopi “umanitari, pacifici ed ecologici”, così come il rifinanziamento del Plan Colombia, indicano che gli Usa provano a tenere e riconquistare posizioni. D’altro canto, Brasile e Argentina provano a proporre una moneta unica latinoamericana, il Venezuela si dice pronto ad ospitare navi da guerra russe per manovre nei Caraibi e il Nicaragua riconosce le repubbliche di Abkazia e Ossezia. Chiunque da gennaio s’insedierà alla Casa Bianca, almeno in America latina non avrà vita facile.