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Categoria: Esteri
di Carlo Benedetti

MOSCA. Ora la politica estera del Cremlino - dopo i tragici “fatti del Caucaso” - parla citando Von Clausewitz e Tacito. Rileva che la guerra altro non è che una “reciproca distruzione”, poi ricorre a quella affermazione emblematica che condanna quanti “hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace”. Tutto questo vuol dire che si apre una nuova pagina nei rapporti di Mosca con Tbilisi? No, perchè la posizione di Medvedev e di Putin non è cambiata. Restano in vigore le condanne nei confronti del duce Saakasvili, ma nello stesso tempo gli analisti russi cercano vie d’uscita anche sulla base delle riunioni e dei vertici dei giorni scorsi: dagli incontri con i politologi di varie parti del mondo al convegno di Soci sugli investimenti. Si cerca ora di programmare il futuro tenendo conto che l’area caucasica comprende due nuove realtà che hanno un ottimo rapporto con la Russia e che sono, di conseguenza, una appendice del Cremlino in quell’area mai vaccinata contro la peste dei nazionalismi. E’ quindi in atto (lo diciamo sulla base di incontri avuti a Mosca nei maggiori istituti di politologia) non tanto un processo di revisione ma un tentativo di capire, con ragionamenti pacati, i successivi processi di integrazione. L’atteggiamento è di grande cautela e pragmatismo. Per arrivare a concludere che se da un lato la guerra fredda è finita si è pur sempre in una fase calda carica di fragili equilibri. E fra i problemi che sono sul tappeto c’è quello del rapporto con gli Usa. Per non parlare dell’Onu che, nonostante tutto, resta una grande scatola vuota che può funzionare solo quando qualcuno la riempie con il proprio denaro e le proprie armi. Fiducia quindi limitata nell'Onu. Che va “riempito” di contenuti, per uscire dalle secche dell'ambiguità.

Di conseguenza la Russia di oggi parla già di un 8 agosto (data dell’aggressione della Georgia alla Ossezia del sud) come di una linea di confine che divide il prima dal dopo. Una situazione transitoria che due giornalisti del settimanale “Ekspert” - Pavel Bykov e Gevorg Mirzanjan - definiscono come un “punto e virgola”. Si è, infatti, ad una fase che potrebbe sempre annunciare nuove guerre regionali. Ed anche la felix Europa che dopo la fine della seconda guerra mondiale, ha conosciuto il più lungo periodo di tregua della sua storia moderna si trova a dover guardare con estrema attenzione sia alle periferie che al cuore stesso del continente.

Le alterne vicende di vari paesi hanno infatti portato ad "accettare" l'instabilità come denominatore politico comune ai sistemi politici del vecchio continente. Tutto questo per confermare (la guerra dell'Iraq è cosa quotidiana) che la guerra ricomincia a funzionare come prosecuzione della politica, con altri mezzi. Ecco perché il fare chiarezza sull'"uso" della Storia (per usare una espressione coniata da Jurgen Habermas) è stato (ed è) per i tanti osservatori politici e storici un mestiere difficile, guardato anche con sospetto. Il fatto è che a partir da quell'11 settembre 2001 ci siamo ritrovati, a poco a poco, nel pieno di battaglie e conflitti che hanno rivelato la novità di fine secolo e d’inizio del nuovo millennio. Perché dall'equilibrio bipolare, fondato sulla competizione fra due blocchi militari equipotenti e contrapposti, si è passati al dominio pressoché incontrastato di un’unica gran potenza, assurta a gendarme esclusivo del mondo.

Ora, per Mosca, tutto è un “punto e a capo”. Soprattutto per il fatto che - vittorie o sconfitte a parte - i recenti avvenimenti caucasici hanno evidenziato la mancanza di un vero disegno strategico nella politica estera e di sicurezza russa. Sulla base di questa considerazione si può affermare che Medvedev e Putin si sono trovati sicuramente a dover mediare tra le due principali lobby che operano all’interno della Russia: quella dei servizi di sicurezza e dei militari (fondata su sentimenti anti-americani, anti-occidentali e basata anche su teorie slavofile) e quella dei settori industriali ed economici tutti tendenzialmente filo-occidentali. Eppure, da una analisi delle varie fasi iniziali del recente conflitto Mosca-Tbilissi si è visto che in entrambi i paesi hanno avuto la meglio le lobby nazionaliste. Le quali da ogni lato della barricata si lanciano accuse e insulti.

Comunque sia bisogna riconoscere che sin dal primo momento dell’aggressione georgiana si è registrata una “eccellente” campagna di stampa mondiale a favore della Georgia, tesa ad evidenziare le difficoltà della dirigenza russa. Con Medvedev, fresco di nomina, che si è trovato a dover segnare con i suoi interventi una nuova linea di demarcazione nei confronti dell’Ovest caratterizzata da un “certo” antiamericanismo che il Cremlino degli ultimi anni aveva cercato di tener lontano dalle sue visioni geopolitiche. E si sa bene che Putin si era sempre trattenuto dal lanciare accuse violente, arrivando solo al livello di guardia.

Ma ora non è un mistero che attorno alla recente guerra si sono creati nei due paesi - direttamente coinvolti nel conflitto - gruppi di interessi di carattere economico, politico, ministeriale, carrieristico oltre che gruppi di influenza e di prestigio. Tutti attivi ed impegnati ad opporsi a cambiamenti di linea e di soluzioni in chiave pacifica. La prova di forza è stata comunque superata e in Russia c’è anche chi canta vittoria. Pur se è chiaro che conflitti del genere sono annosi e tesi a trasformare in vittorie politiche i risultati militari.

Nell’arena caucasica, comunque, Georgia e Russia non sono soli. I conti vanno fatti con gli Usa ma con l’obiettivo di mantenere uno statu quo onorevole. Pur se le incognite - visto che l’America si appresta ad un voto che sicuramente si rifletterà anche sul Caucaso - sono numerose e tutte allarmanti. Un fatto è certo, ed è che la Russia che nella sua lunga storia ha sempre considerato il Caucaso come una propria sfera d’influenza, si troverà a considerare ogni sommovimento locale come una minaccia per il suo equilibrio generale.

Intanto nei circoli politici e diplomatici della Russia si impone sempre più la tesi relativa al fatto che l’obiettivo della Georgia è stato (ed è) oltre che quello del pieno controllo sul territorio - in cui passano due gasdotti che arrivano in Europa passando dall’Asia (evitando il territorio della Russia) - anche la velleità di rovinare i rapporti di Mosca con l’Azerbaigian. Spuntano interessi imperiali perché al centro di tutto resta quella guerra energetica per la cui conduzione Saakasvili ha ottenuto dall’Occidente grandi garanzie. In questo contesto va ricordato che l’obiettivo strategico consiste nel far passare il gas dell’Asia centrale al di là del territorio russo.

Tutto fa parte della strategia occidentale che punta al controllo del Caucaso. Strategia che trova le sue origini in quel cosiddetto Comunicato di Istambul (2004) dove si affermava che l’intero Caucaso del nord, già considerato regione di interessi strategici, doveva passare sotto il controllo occidentale al pari dell’Asia centrale. Ed ecco che anche in questo contesto si trova la risposta relativa al recente conflitto: perchè se la Russia non avesse reagito all’aggressione georgiana si sarebbe puntato al suo distacco dal Caucaso del nord portando all’integrazione nella Nato dell’Azerbaigian e della Georgia, bloccando le vie d’accesso al Caspio e sostenendo il separatismo e il terrorismo in territorio russo. E questo, forse, spiega l’immediata reazione militare del Cremlino. Riassunta poi al summit di Soci con un Putin che dice all’Ovest: “State attenti e non provateci più”. Un modo duro per annunciare che ora la via della pace è controllata a vista dalle truppe russe.