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Categoria: Esteri
di Michele Paris

La tempesta abbattutasi da qualche settimana su Wall Street e di riflesso sul sistema bancario mondiale, oltre ad avere segnato probabilmente l’inizio della fine della deregulation reaganiana, ha contribuito a seppellire in maniera definitiva anche l’immagine di “maverick” che il candidato repubblicano alla Casa Bianca si era costruito in oltre due decenni di frequentazioni politiche. L’inevitabile irruzione nel dibattito politico americano dei temi legati all’economia in crisi ha rappresentato infatti una vera e propria sciagura per il 72enne senatore dell’Arizona. Il più o meno contemporaneo dissolvimento dell’entusiasmo iniziale prodotto tra una parte delle elettrici e degli elettori indipendenti dalla scelta di Sarah Palin come candidata alla vicepresidenza - una volta emersa la sua totale impreparazione a ricoprire un ruolo di una tale importanza - ha costretto così McCain a giocare le sue ultime carte a disposizione per invertire la dinamica di una corsa che a poco meno di un mese dalle elezioni sembra essersi messa decisamente a favore di Barack Obama. La strategia scelta dal duo repubblicano non ha potuto che coincidere con quella sapientemente elaborata da personaggi come Karl Rove o Lee Atwater e diligentemente messa in atto da George W. Bush nelle sue due vincenti campagne elettorali: gettare fango sull’avversario. Alla vigilia del secondo faccia a faccia tra i due candidati alla guida del paese, John McCain giungeva con enormi pressioni sulle spalle, dal momento che i sondaggi a livello nazionale e negli stati più in bilico in vista dell’Election Day stanno facendo segnare un continuo progresso del suo rivale. Il metodo selezionato per regolare il dibattito, il cosiddetto “town-hall-style meeting”, basato su una serie di domande poste dal pubblico presente a Nashville e da poche altre registrate e selezionate prima dell’evento, lasciava tuttavia pochi spazi agli attacchi frontali.

Quello che è comparso pertanto alla Belmont University, nella metropoli del Tennessee, è stato il candidato repubblicano che si era già visto durante le battute iniziali della campagna elettorale, stancamente alla ricerca di proporsi come un agente del cambiamento della politica statunitense e in grado di superare le divisioni e le faziosità di Washington. Il tutto piazzando, a sostegno della sua tesi, sporadiche critiche al presidente Bush e al suo vice Dick Cheney, ma anche sottolineando la sua collaborazione al Congresso con i senatori democratici Ted Kennedy e Russ Feingold e la stretta amicizia che lo lega all’ex candidato alla vicepresidenza a fianco di Al Gore nel 2000, ora senatore indipendente, Joe Liebermann.

Il nervosismo di McCain, che già era apparso evidente durante il primo dibattito tenuto un paio di settimane fa nel Mississippi, è riemerso a tratti anche a Nashville e si è manifestato apertamente nel corso di un suo intervento durante il quale si è rivolto a Obama semplicemente e in maniera sprezzante con le parole “that one” (“quello lì”). Il senatore afroamericano dell’Illinois, al contrario, è apparso autorevole, competente, sufficientemente “presidenziale”, pronto a ribattere ad ogni accusa e a fornire risposte convincenti sui temi economici, della politica estera e dell’assistenza sanitaria, tanto che gli “instant polls” - gli ormai consueti sistemi di rilevazione in tempo reale del gradimento dei candidati tra un certo numero di spettatori selezionati – impiegati dai principali network americani CNN, NBC, CBS e addirittura Fox News, hanno alla fine decretato un chiaro successo di Obama nel confronto con il rivale.

Il consiglio giunto dalla governatrice dell’Alaska Sarah Palin che raccomandava McCain di spogliarsi dei guanti per attaccare Obama a ruota libera nel corso del “faccia a faccia”, sembra insomma non avere funzionato a sufficienza per dare una svolta ad una corsa che, anche secondo il parere di molti commentatori repubblicani, appare quasi segnata. Dipinto nel corso della serata come il più liberal dei candidati della storia americana recente, accostato al presidente Herbert Hoover – in carica negli anni in cui scoppiò la Grande Depressione – per voler alzare il carico fiscale in un periodo di crisi economica, additato come uno dei responsabili della bolla dei mutui, il senatore democratico ha puntualmente provveduto a ricordare agli elettori il legame inestricabile tra la fallimentare politica dell’attuale inquilino della Casa Bianca e quella proposta da McCain. Un accostamento questo che, assieme ai precedenti di paladino della deregulation e, per sua stessa ammissione, alla scarsa competenza circa l’economia, finirà quasi certamente per costare la presidenza all’ex veterano del Vietnam.

Al di là però dei toni tutto sommato misurati che hanno caratterizzato il secondo dei tre dibattiti previsti prima delle elezioni del 4 novembre, tutto sembra prefigurare una fase finale di campagna elettorale all’insegna dello scambio di insulti e colpi bassi da entrambe le parti. Una svolta che, sia pure attesa, risulta particolarmente avvilente per un politico come McCain, il quale durante la stagione delle primarie aveva promesso solennemente di evitare una strategia di questo genere per il bene dell’America. Senza contare poi che quest’ultimo poteva poi vantare precedenti veramente contraddistinti da un atteggiamento bi-partisan e che soprattutto aveva sperimentato sulla propria pelle gli effetti di una strategia denigratoria portata avanti dall’entourage di George W. Bush durante le primarie del 2000.

Otto anni fa infatti, un John McCain rigenerato dalla consultazione elettorale del New Hampshire, venne fatto oggetto di una serie di accuse diffamatorie alla vigilia delle primarie in South Carolina da parte del suo rivale repubblicano, tra cui quella di avere nascosto un figlio di colore, frutto di una relazione extraconiugale. La sua corsa alla nomination finì praticamente in quel momento sotto i colpi di una propaganda orchestrata da una cerchia di consulenti che già si erano messi a disposizione di Bush padre dodici anni prima per affondare la candidatura alla presidenza del democratico Michael Dukakis. Il modo in cui Atwater, allora consigliere del futuro presidente, e i suoi assistenti dipinsero l’ex governatore del Massachusetts risulta oggi illuminante, come ricorda in questi giorni un’editoriale del New York Times, alla luce delle line di attacco messe in campo per ostacolare l’avanzata di Obama nei sondaggi. Un nome vagamente bizzarro e di origine straniera, un liberal di sinistra espressione dell’odiata élite intellettuale della East Coast che sembrava promettere un aumento indiscriminato delle tasse, un debole dal punto di vista militare, Dukakis allora, come Obama oggi, non poteva rappresentare in alcun modo i veri valori della società americana e la sua eventuale elezione avrebbe significato una scelta rischiosa in termini di sicurezza nazionale.

Le speranze di successo di McCain in un anno nel quale tutte le circostanze indicano un ambiente favorevole ai democratici risiedono principalmente nella sua capacità di trascinare il confronto elettorale in una sorta di referendum su Barack Obama. Nel tentativo di sollevare quanti più dubbi possibili sull’immagine del senatore dell’Illinois sono state recentemente riesumate le polemiche attorno e certe sue frequentazioni negli anni scorsi a Chicago. McCain e Sarah Palin negli ultimi giorni si sono allora divisi le incombenze di ricordare agli elettori i legami tra Obama e William Ayers, uno dei fondatori dell’organizzazione pseudo-terroristica “Weather Underground” che negli anni Sessanta pianificò una serie di attentati ad edifici pubblici sul territorio americano, e tra Obama e il reverendo Jeremiah Wright, ex pastore della Trinity United Church of Christ, frequentata fino a quest’anno da Obama e protagonista di una serie di sermoni molto critici della società e del governo statunitensi. Tutte relazioni peraltro già emerse e sufficientemente sviscerate svariati mesi fa nel corso della campagna elettorale per le primarie e che avevano fornito a Hillary Clinton e ai suoi sostenitori altrettante occasioni per attaccare la credibilità e la capacità di giudizio di Obama.

Al contrario di quanto auspicato da McCain, la campagna elettorale si sta trasformando invece in un referendum per la scelta di quale candidato potrà rimettere in sesto un’economia americana allo sbando, un’evoluzione che nell’arco di poche settimane l’ha fatto precipitare di parecchi punti dietro al suo avversario in quasi tutti i sondaggi. Non solo Obama ha consolidato la sua posizione in stati chiave come il Wisconsin, la Pennsylvania e il Michigan, ma risulta ora in vantaggio in altri stati generalmente fedeli ai repubblicani nelle presidenziali – Virginia, Missouri, Colorado e Nevada – e soprattutto ha operato il sorpasso in Ohio e in Florida, due delicatissimi “battleground states” che Bush aveva vinto in maniera decisiva quattro anni fa.

A meno di quattro settimane dal voto, la necessità di replicare l’andamento della sfida del 2004 tra l’attuale presidente e il democratico John Kerry, con quest’ultimo protagonista di un crollo nelle ultime settimane prima dell’Election Day a causa di una escalation di attacchi personali e ai propri precedenti politici e militari, rischia piuttosto di configurarsi per McCain nella riedizione della sfida del 1992, quando le ansie e le paure prodotte tra gli elettori da un’economia in difficoltà risultarono più forti di quelle alimentate dal presidente in carica George H. W. Bush nei confronti del giovane governatore dell’Arkansas Bill Clinton.