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Categoria: Esteri
di Fabrizio Casari

Milletrecentocinquanta miliardi di Euro. Non sono un bilancio mai certificato di un paese del sud del mondo; nemmeno lo stanziamento previsto per il miglior welfare possibile nel nostro Paese. E’ solo quanto le borse hanno bruciato la settimana di contrattazioni appena conclusa, che vede la perdita secca del 22% del valore dei titoli. Vedremo come reagiranno oggi i mercati, dopo le misure straordinarie assunte dalla Ue, ma essere ottimisti sarebbe folle. Una volta era il venerdì nero, poi divenne il lunedì nero, adesso pare che solo il sabato e la domenica non lo siano, dato che le Borse sono chiuse e i titoli non si muovono. Titoli che hanno una peculiarità: come capitali volatili si alzano in cielo agitando ricchezza fatta di nulla e destinata a pochi, come carta straccia ritornano sulla terra, in un monopoli perverso che li spalma su tutti sotto forma di recessione. L’economia drogata del turbo capitalismo, che negli anni ’90 invitava i risparmiatori a diventare investitori, (solo per avere a disposizione i capitali freschi con i quali costruire le speculazioni) a comprare paesi interi a prezzi di saldo e che ora cerca rifugio nell’intervento delle banche centrali, è finta nei suoi effetti benefici ma vera nei detriti che trascina con sé. Quella che è entrata irrimediabilmente in crisi è una politica economica figlia degenere di Adam Smith e nipotina stupida di Milton Friedman. Viene da lontano e, se ne cogliamo solo oggi i suoi effetti, è perché quando questi colpivano il sud del mondo e anche alcuni riflessi da noi, il pensiero unico imponeva silenzio e fede. Cominciò alla fine degli anni ’80 la fase ultima della guerra del capitale contro il lavoro. La finanziarizzazione dell’economia scoprì i fondi privati, i capitali speculativi, il saccheggio dei paesi attraverso i capitali volatili che s’insediavano accompagnati e benedetti dai diktat del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale.

Organismi che mentre accettavano - anzi promuovevano - la crescita delle economie del nord sulla base dell’indebitamento crescente, intimavano al sud del mondo rigore assoluto e conti in ordine, con la purga delle politiche di “aggiustamento strutturale”. Al sud imponevano la riduzione drastica del debito, la contrazione massima della spesa sociale, l’abbattimento di ogni barriera doganale, l’apertura del mercato interno agli investitori esteri. Ma al nord la musica era diversa: l’economia interna veniva sussidiata e le barriere doganali crescevano, ma nonostante ciò gli Usa passavano dall’essere primo paese creditore a primo paese debitore.

Insomma, gli organismi monetari internazionali permettevano l’indebitamento crescente del nord perché tanto questo veniva pagato dal sud. Il debito, che nel sud significava violare le regole, straordinariamente al nord diventava la garanzia perché fossero rispettate le stesse. Le politiche del credito dissennate accompagnavano al nord l’ideologia neocons che prefigurava un mondo di proprietari, mentre al sud la stessa creditizia era l’alfa e l’omega delle economie interne.

Ma per quanto drogata, per quanto folle nelle sue dinamiche, anche l’economia che scambia il valore reale con quello teorico, che chiude al lavoro per aprire ai capitali speculativi, prima o poi presenta il conto. L’effetto tequila e i coralitos argentini sembrano oggi, a tanti anni di distanza, le prove generali di quanto ci aspetta. Molto si sarebbe dovuto apprendere dalle crisi finanziarie latinoamericane e del sudest asiatico, ma il pensiero unico non prevedeva sguardi indiscreti per analisi discrepanti.

Quella che si è scatenata ora è una crisi sistemica: crisi energetica, alimentare, finanziaria. E produrrà una crisi politica, di assetti strutturali, che vedranno gli Stati Uniti non più come il paese-guida dell’Occidente, ma il problema principale dell’Occidente. Un impero piovra che impedisce proprio quello sviluppo della globalizzazione che i teorici del nuovo ordine mondiale disegnavano come l’era della ricchezza per tutti e che, nel suo procedere a cappa e spada per difendere il suo ruolo di gendarme unipolare, crea il suo stesso dissesto, la crisi del suo stesso ruolo. Certificato da un deficit di bilancio federale che prevede ammontare a 407 miliardi di dollari nel prossimo anno e un debito pubblico che ha superato i diecimila miliardi di dollari, cioé il 72% del Pil Usa.

Proviamo a leggere alcuni dati e alcune cifre che più di altre simbolizzano la crisi statunitense, che l'amministrazione Bush ha drammaticamente accentuato del 70%. Ubriacati dagli ultras neocons e ingozzati di monetarismo, solo nel periodo gennaio-giugno del 2008, gli Usa hanno perduto 760.000 posti di lavoro, che entrano a far parte della poco invidiabile schiera dei disoccupati Usa, circa 9,5 milioni. Ovviamente, i nuovi disoccupati andranno ad incrementare anche il numero degli statunitensi senza assistenza sanitaria, circa 45 milioni. I settecento miliardi di dollari del piano Paulson per affrontare la crisi di borsa sembrano invece quisquilie al confronto dei 612 miliardi previsti per le spese della Difesa nell'anno fiscale 2009 (settanta di questi verranno dedicati ad Afghanistan e Irak). A questi vanno aggiunti altri 10 miliardi di dollari per le armi nucleari (che sono iscritte al bilancio del ministero dell'Energia) e altri 50 per l'intelligence militare. E' la metà delle spese militari di tutto il pianeta.

Sono le cifre di un paese impazzito, di un sistema che si rivolta contro se stesso. Basti pensare che nonostante i 7.700 miliardi di dollari investiti nel Plan Colombia con la scusa del contrasto al traffico di droga, solo nei primi sei mesi del 2008 sono 516 i miliardi di dollari utilizzati per l’acquisto di droghe illecite nel mercato interno, ai quali andrebbero aggiunti quelli per le sostanze lecite (alcol e sigarette) pari a 68 milioni di dollari nei primi sei mesi di quest’anno. Gli americani che si nutrono grazie ai food stamps, i buoni statali per il cibo, sono ormai 29 milioni. E se una volta il complesso militar industriale era comunque il principale volano dell’economia statunitense, le guerre intraprese e mai vinte cominciano a mettere in dubbio il valore sistemico del meccanismo.

La guerra in Irak è costata fino ad ora 4120 soldati morti e 600.000 irakeni, ma queste sono cifre che non destano preoccupazione ai contabili della Casa Bianca e del Pentagono. Il costo del mantenimento della follia imperiale, semmai potrebbe fargli maggior effetto: 800 miliardi di dollari, circa dodici al mese, cinquemila dollari al secondo. Venti di questi sono transitati direttamente dalla cassa del Pentagono a quelle della KBR, una divisione della Halliburton del Vice Presidente Dick Cheney; cibo, benzina, alloggi e altri dettagli rappresentano le forniture per le 75 basi militari Usa in Irak. Coerenti, in fondo, con il costo per il mantenimento annuale di un soldato nel teatro di guerra irakeno: 390.000 dollari. E sono circa 155.00 i soldati occidentali in Irak, oltre ai 180 mila mercenari.

Altri computi riguardano i giornalisti assassinati in Irak dalle forze armate statunitensi (14) e gli sfollati irakeni (2.260.000). Nel paese l’elettricità per le truppe è garantita 24 ore su 24, mentre per gli irakeni è di una o massimo due ore al giorno. Ma, tutto sommato, è una questione di coerenza si potrebbe dire, visto che gli Usa consumano da soli il 24% dell’energia mondiale; tanto per fare un paragone irriverente, basta sapere che un cittadino statunitense consuma in media l’energia di 370 cittadini etiopi. Non accendono però le luci per studiare di sera, visto che uno ogni venti adulti statunitensi è analfabeta. Semmai per mangiare, visto che seppure 1.386.024.590 persone non hanno accesso all’acqua e 888.732 non sono adeguatamente alimentate, e che ogni giorno muoiono per fame 21.700 persone, a fare da contraltare ci sono gli obesi: oltre un miliardo e 150 milioni, il 78% dei quali statunitensi.

Affinché il cortile di casa non sia troppo intasato, 60 milioni di dollari è la cifra che l’USAID ha investito in Venezuela per destabilizzare il progetto bolivariano di Hugo Chavez; 120 milioni in Bolivia per destabilizzare Evo Morales e 75 milioni in Nicaragua contro Daniel Ortega. Il tentativo è quello di riprendersi il controllo del subcontinente e riprovare a saccheggiarlo per finanziare in parte il debito, ma non ci riusciranno. Alla vigilia delle elezioni, il confronto tra Obama e McCain appare ora, più che uno scontro politico, la lotta tra il futuro e il passato. Con il primo che dovrà essere ripensato e il secondo velocemente abbandonato. L'impero ormai, sarà sempre più solo un isterismo inutile.