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Categoria: Esteri
di Giuseppe Zaccagni

Anche la Cina, in silenzio, partecipa al conto alla rovescia per il 44mo Presidente degli Usa. Ma in attesa del fatidico 20 gennaio 2009 non fa cenno a preferenze e decide di non votare. Non sceglie il repubblicano John Mc Cain e non fa il tifo per Barack Obama. Tira fuori la sua filosofia basata su un secolare pragmatismo geopolitico che non è, però, un isolamento internazionale. Cerca di non scoprire le carte al fine di mantenere gli equilibri raggiunti perchè sa di trovarsi in una situazione particolare ed anche incerta perché “accerchiata” da grandi realtà che si chiamano Russia e Giappone. Sa anche che i rapporti di forza in Asia si sono modificati. E che il suo rapidissimo sviluppo economico li trasformerà ancora. Con le frontiere reali, quelle economiche, che peseranno sempre più sugli equilibri mondiali. Di qui una attesa silenziosa ed attenta. Ma la diplomazia obbliga pur sempre a muovere le pedine. E così Pechino (contraddicendo ancora una volta quel suo Mao Zedong che non viaggiò mai fuori del paese se non per due visite a Mosca) manda a New York un personaggio del calibro di Wen Jibao, il premier delle scelte relative alla modernizzazione. La missione non è di routine, perché il leader cinese arriva negli Usa nel periodo in cui è lotta aperta tra i due candidati alla Presidenza. E così il momento è più che adatto per lanciare qualche segnale.

Wen Jibao va subito al cuore del problema e rivela quanto bolle in pentola a Pechino. Dove più che a John Mc Cain e a Barack Obama si pensa al futuro di Taiwan e a come inserire la Cina nel grande gioco mondiale. Ed ecco che il premier cinese sfodera le armi della diplomazia cogliendo l’occasione di una colazione di benvenuto offerta dai gruppi di amicizia americani. Brinda e sorride a tutti. Poi il discorso seguito con religioso silenzio attendendo che il cinese scopra le carte: Mc Cain o Obama? Ma le sorpese non arrivano. Wen Jibao dice: "Continuiamo insieme a creare un futuro prospero per le relazioni sino-americane". Poi esamina i vari momenti dell'amicizia bilaterale e parla delle relazioni così come dovrebbero svilupparsi dopo le presidenziali. Ma raffreda subito chi attende nomi e previsioni. Perchè, dice, non importa chi salirà al potere nella Casa Bianca: “Le nostre relazioni continueranno a svilupparsi e la corrente storica sarà irreversibile”.

E così, la prova del fuoco dell’America che uscirà dalle urne, sarà non tanto quella delle buone relazioni economiche con Pechino, quanto quella relativa al “destino” di Taiwan. E su questo punto Wen Jibao non lascia spazio a dubbi e a posizioni pragmatiche. Va giù duro. Perchè ricorda a tutti (ad ascoltarlo c’è un pubblico particolare: esponenti di vasti settori della società, ministri, politologi, economisti ed anche l'ex-segretario di Stato Henry Kissinger) che il problema di Taiwan è sempre un problema centrale e più sensibile nelle relazioni sino-americane.

"La storia – dice Jibao– conferma che l'esito positivo o no delle relazioni bilaterali, dipende in grande misura da adeguate soluzioni inerenti al problema Taiwan. Speriamo che la parte americana possa onorare la promessa, persistendo nella politica di un'unica Cina ed attenendosi ai tre comunicati congiunti sino-americani: “opporsi all'indipendenza di Taiwan", "favorire il miglioramento delle relazioni tra le due sponde" e "realizzare uno sviluppo comune". Tutto questo favorirà le popolazioni delle due sponde, le relazioni sino-americane e la pace del mondo".

E così il premier di Pechino riceve applausi e strette di mano che, forse, saranno anche formali ma è certo che non sono paragonabili a quello storico gesto di John Foster Dulles che alla Conferenza di Ginevra del 1954 si rifiutò di salutare il Primo Ministro della Cina. Pechino raggiunge così con questa missione di Wen Jibao alcuni significativi risultati. Fa notare che la Cina ha una “totale fiducia” nei confronti di chi si insedierà nella Casa Bianca e che, di conseguenza, le relazioni sino-americane continueranno a svilupparsi. Dice poi che i due paesi non sono avversari in competizione, ma partner con la possibilità di diventare amici. E che non vi dovranno essere relazioni del tipo "tu perdi e io vinco", oppure, "tu hai vinto ed io sono stato sconfitto".

I traguardi della Cina - aggiunge il premier - non significano insuccessi degli Usa oppure il contrario, gli Stati Uniti possono avvantaggiarsi dalla prosperità e dallo sviluppo cinese, i due paesi potranno così progredire congiuntamente: “Esprimiamo, pertanto, la sincera speranza che la cooperazione amichevole sino-americana possa procedere su una brillante strada armoniosa e di comune sviluppo tra due grandi paesi dal diverso retaggio culturale". Ma è chiaro che il punto nodale è la questione di Taiwan. Il prossimo inquilino della Casa Bianca, pertanto, è avvertito.

L’isola tanto contestata (dove si rifugiò il generalissimo Ciang Kai Shek nel 1949 dopo essere stato sconfitto dai comunisti) torna quindi sul tavolo degli Usa con i suoi 21 milioni di abitanti, di cui 17 milioni «taiwanesi puri» essendo gli altri certamente “cinesi”, perchè presenti da prima dell’arrivo di Ciang Kai Shek. Ed è chiaro che Pechino punterà sempre più ad inglobare questa realtà di Taiwan. Facendo forza, soprattutto, sul fatto che la sua posizione contrattuale nei confronti degli Usa si è ulteriormente rafforzata. La crescita dell’economia cinese ha infatti trascinato quella delle economie del Sud-Est asiatico e anche degli Usa. Ne sanno qualcosa gli uomini d’affari statunitensi i quali hanno sempre sostenuto che eventuali sanzioni economiche americane per il mancato rispetto dei diritti umani in Cina comporterebbero la perdita di posti di lavoro in Usa e che la Cina, come ritorsione, potrebbe espellere tutti gli americani dal suo mercato.

Ma a New York il premier cinese ha toccato anche un altro tasto. Quello dell’economia mondiale che ha bisogno – ha detto – degli sforzi comuni dell’America e della Cina. In pratica il pragmatismo cinese di questi tempi respinge le note tesi di Huntington sul “conflitto tra civiltà”, un testo che ha scatenato, a suo tempo, un vivace dibattito anche in Cina. Con Pechino che sostiene che nel mondo di oggi i conflitti di interesse prevalgono su quelli dettati dalle differenze culturali. Queste ultime segnano, infatti, le linee di demarcazione tra i diversi gruppi di nazioni in competizione, ma non sono le cause fondamentali dei conflitti.

Il ragionamento cinese parte dal presupposto che essendo poco probabile una crescita illimitata delle risorse del pianeta, i paesi ammessi al loro godimento devono operare per pianificare le ricchezze e le risorse. E consentire, di conseguenza, di risolvere i problemi con metodi pacifici. E’ con questo “bottino” che il premier cinese torna nel suo paese per riprendere il conto alla rovescia sulle elezioni americane. Certo di superare gli ostacoli che potranno venire da una Casa Bianca in ebollizione.

Intanto la dirigenza cinese sa di poter controllare la sua potenza economica nazionale. Ed è questo, per tutti, il mistero di questo Paese comunista e insieme capitalista, dove si acquistano più Ferrari, Porsche, Maybach, Bmw, Bentley, gioielli Bulgari e Cartier rispetto a qualsiasi altra nazione del pianeta. In pratica un Paese dove il "socialismo di mercato" può essere definito, in termini marxiani, un'acrobazia difficilmente eguagliabile, neppure dalla Russia di Vladimir Putin che, al confronto dei cinesi, rimane un conservatore di scarsa fantasia. Una cosa infine è certa: John Mc Cain o Barack Obama, Vladimir Putin o Dmitry Medvedev, la Cina non cambia. Punta ad inglobare Taiwan chiedendo appoggi a New York e a Mosca. Ci riuscirà?