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Categoria: Esteri
di Eugenio Roscini Vitali

Secondo Teheran è colpa del prezzo del petrolio, passato dai 147 dollari al barile di luglio ai 64 dollari di fine ottobre. Sta di fatto che in Iran si iniziano a vedere i primi segni di stretta creditizia, difficoltà che si aggiungono allo stato di malessere che attraversa il mondo politico ed istituzionale e che dipendono solo marginalmente dalla crisi economica mondiale. Riserve per 175 miliardi di dollari e una grande voglia di spendere si scontrano infatti con una paurosa crescita dell’inflazione e una forte svalutazione del rial, la moneta iraniana. Il quotidiano Kargozaran denuncia che l’aumento dei prezzi è un fatto del tutto irrazionale e in un articolo pubblicato il 29 settembre scorso parla di un’impennata del costo della vita pari a circa il cinquanta per cento, valore registrato in un solo mese su un paniere di 45 prodotti alimentari. Nonostante le stime della Banca centrale iraniana (CBI), che valuta i consumi al passo con le previsioni, l’inflazione galoppa a livelli che sfiorano il 30 per cento annuo (25.8 a luglio, 27.6 ad agosto, 29.4 a settembre) e nelle caffetterie, nei mercati e per le strade la popolazione inizia a dar segni di nervosismo misto a sfiducia: protesta per l’aumento dei prezzi al dettaglio, per l’assenza di controlli, per la corruzione che soffoca qualsiasi iniziativa, per la mancanza di lavoro e di opportunità. Così, a meno di un anno dalle elezioni presidenziali, gli iraniani iniziano a fare i conti con le scelte elettorali fatte nel 2005, scelte che hanno premiato la destra radicale e le fatue promesse del presidente Mahmoud Ahmadinejad: il nuovo patto sociale, il populismo rivoluzionario, il piano economico, tutte promesse disattese a favore di una campagna politica rivolta ai pasdaran e al partito dei militari, anima e corpo del rancore provato verso una rivoluzione tradita.

Paradossalmente la prima vittima della crisi finanziaria iraniana e proprio Ahmadinejad, che della lotta alla povertà e del riscatto delle classi meno agiate e dei mustazafin, i diseredati, aveva fatto uno dei punti cardine della campagna elettorale che precedette scorse elezioni presidenziali. Nei suoi confronti il giornale finanziario Sarmayeh parla di una discesa repentina dei consensi, un crollo dovuto soprattutto alle scelte fatte in materia di politica finanziaria e di tassazione. Mentre gli esperti vicini al governo giustificano l’aumento dei prezzi con il Ramadan, l’evento religioso durante il quale il costo dei prodotti alimentari lievita notevolmente non solo in Iran ma anche in gran parte del mondo arabo, gli economisti più progressisti parlano di inflazione dovuta alle astronomiche spese governative e agli effetti dell’embargo imposto dalla comunità internazionale. Sta di fatto che da quando Ahmadinejad è salito al potere l’inflazione è praticamente triplicata, passando dall’11 per cento dei primi mesi del 2005 al 30 per cento del settembre scorso.

Innanzi tutto, per risponde alla crisi, Ahmadinejad ha rinnovato i vertici della Banca centrale iraniana (CBI): in sostituzione dell’ex governatore, Tahmasb Mazaheri, è stato nominato il segretario generale dell’Istituto monetario, Mahmoud Bahmani. II cambio, dovuto alle insanabili divergenze di opinione tra il presidente e Mazaheri, dimostra però che all’interno del “palazzo” c’è chi non si allinea alle politiche di regime: per ridurre l’inflazione Mazaheri aveva chiesto un aumento dei tassi d’interesse, attualmente al 12 per cento; al contrario, per aiutare il sistema industriale e far muovere l’economia, il neo eletto Bahmaniha ha ipotizzato l’immissione nel mercato di una forte quantità di denaro. A questo si è aggiunto il tentativo, per ora fallimentare, di introdurre una nuova tassa, l’ennesima imposta che avrebbe colpito soprattutto il ceto medio e alla quale i trasportatori, il grande bazar della capitale e i commercianti della provincia, hanno risposto con uno sciopero, il primo di così grandi dimensioni dalla rivoluzione islamica del 1979.

Che in Iran le cose non andassero bene si era capito da tempo, ma i sempre più frequenti segnali di malcontento dimostrano che molto probabilmente l’era della destra radicale è già finita. All’interno del mondo istituzionale e politico la frattura con Ahmadinejad sembra insanabile: il tentativo di corruzione che vede implicato un rappresentante del governo, cacciato dal parlamento per aver cercato di salvare dall’impeachment il ministro dell'Interno, Ali Kordan, accusato di aver mentito sulla sua laurea, ne è un chiaro esempio. Stessa cosa sul fronte finanziario, gestito dall’attuale regime in modo spesso sconsiderato. In Iran si respira un’aria di calma apparente: il mercato immobiliare viaggia a ritmi da vero boom edilizio e la borsa di Tehran è una delle poche al mondo a non essere ancora stata colpita dagli effetti della crisi economica mondiale. Questo però non basta ad attirare gli investitori stranieri, anzi i capitali tendono a fuggire, vuoi per le pressioni internazionali alle quali è sottoposto il paese, vuoi per la rigidità delle regole e dei controlli imposti dalle autorità, vuoi per un “piano di trasformazione economica” e di privatizzazione che è ancora fermo in parlamento.

Nel giugno del 2005 Ahmadinejad è stato eletto sulla base di un chiaro programma politico: redistribuzione verso il basso dei profitti derivanti dalla vendita dei prodotti petroliferi. In realtà, le politiche economiche di questo governo hanno creato un’enorme riserva di denaro che ha generato inflazione e povertà; a questo si aggiunge poi il fatto che i proventi del greggio venduto a 180 dollari sarebbero stati spesso impiegati in modo non trasparente, con investimenti mirati verso la difesa e i servizi di sicurezza interna. Oltre alle fasce più deboli della popolazione, l’infausto progetto ha colpito anche la classe media: mentre il governo pompava grandi quantità di capitale nei settori connessi al commercio con l’estero, i proprietari di piccole e medie imprese e i commercianti venivano tartassati dall’aumento delle imposte. In sostanza, quello che doveva essere il regime del riscatto si è trasformato nella brutta copia del più bieco capitalismo, dove i ricchi sono diventati ancora più ricchi e i poveri ancora più poveri. Così, a sette mesi dalle elezioni presidenziali, sono in molti a Teheran a temere che Ahmadinejad possa trovare il modo per farsi riconfermare presidente della Repubblica Islamica: nonostante la ricchezza proveniente dal petrolio, l’Iran non potrebbe sopportare un’inflazione a tre cifre e tanto meno altri quattro anni all’insegna di una guerra ideologica al grande e al piccolo Satana.