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Categoria: Esteri
di Michele Paris

Il trionfale insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca un paio di settimane fa è sembrato solo un vago ricordo in questi giorni per molti dei leader mondiali riuniti nella pittoresca cornice di Davos per il consueto raduno del World Economic Forum. A sollevare le ire, tra gli altri, di cinesi e russi, è l’impronta più o meno protezionistica che starebbe caratterizzando il perfezionamento del piano di stimolo all’economia prodotto dalla nuova amministrazione americana e più volte rettificato dal Congresso e dalle richieste di varie lobbies dell’industria. Nonostante la freddezza talvolta manifestata dal neopresidente per i trattati di libero scambio bilaterali e un’opinione pubblica americana in buona parte convertitasi alla necessità di sollevare nuove barriere doganali per le merci d’importazione, resuscitare una politica anche vagamente protezionistica potrebbe innescare una reazione a catena in molti paesi europei e asiatici che finirebbe per aggravare la già delicata situazione economica che stiamo vivendo. Al pacchetto Obama approvato dalla Camera dei Rappresentanti la settimana scorsa, era stata aggiunto il discusso vincolo “Buy American”, relativamente ad alcuni settori che a breve beneficeranno della spesa stanziata dal governo federale per dare il via ad una serie di nuove opere pubbliche. Secondo tale clausola, fortemente voluta dalla grande industria manifatturiera a stelle e strisce, i materiali da impiegare nella costruzione delle nuove infrastrutture su tutto il territorio dell’Unione dovranno essere cioè forniti da aziende statunitensi. L’obbligo favorirà principalmente l’industria dell’acciaio e quella tessile, ma il prossimo esame al Senato del piano di stimolo da oltre 800 miliardi di dollari potrebbe portare con sé ulteriori vincoli per altri settori.

Se un provvedimento del genere potrebbe apparire più che ragionevole in tempi di crisi come quello attuale, il rovescio della medaglia sarebbe un quasi sicuro aumento dei costi delle opere da realizzare e la conseguente sottrazione di risorse pubbliche disponibili per altre aziende americane, come ammonisce in un’accesa critica della misura in questione dalle pagine del New York Times l’economista Douglas Irwin, docente presso l’Università di Dartmouth.

L’innalzamento delle tariffe doganali per i prodotti esteri potrebbe inoltre minacciare le opportunità di alcune multinazionali americane di aggiudicarsi i lucrosi contratti che si profilano in paesi come Cina e India, pronti a dare fondo alle proprie riserve di valuta accumulate durante il boom economico per avviare anch’essi un programma di nuove costruzioni come antidoto alla recessione in atto. Questo è tra l’altro il motivo principale per cui due colossi d’oltreoceano come General Electric e Caterpillar si sono chiamati fuori dalla frenetica attività di lobby a favore della clausola “Buy American”. Con il livello d’importazioni degli USA già in pesante discesa negli ultimi mesi come diretta conseguenza della crisi economico-finanziaria, una battaglia sui dazi doganali su scala planetaria potrebbe produrre così un ulteriore rallentamento della ripresa che si preannuncia di per sé già estremamente faticosa. Una lezione peraltro che l’America avrebbe già dovuto aver assimilato, avverte ancora Irwin. Nel 1930, infatti, l’approvazione della legge doganale “Smoot-Hawley Tariff Act”, che aumentò vertiginosamente le tariffe di decine di migliaia di prodotti di importazione, determinò un identico atteggiamento da parte dei governi europei che finì per far crollare il volume degli scambi commerciali nel pieno della Grande Depressione.

L’ombra del nuovo protezionismo americano ha spinto così non pochi primi ministri presenti in quel di Davos a riservare un’accoglienza tutt’altro che calorosa all’amministrazione americana entrante, perpetrando – sia pure da una differente prospettiva – le divisioni tra gli Stati Uniti e il resto del mondo che già avevano caratterizzato il secondo mandato di George W. Bush. Le voci più critiche sono state quelle di Vladimir Putin e del premier cinese Wen Jiabao - i quali non hanno mancato di sottolineare le responsabilità nello scoppio della crisi mondiale di un’economia americana basata su un eccessivo consumismo e su un mercato finanziario senza freni – ma anche i capi di governo di paesi alleati come Germania e Francia hanno tuonato contro gli interventi di Washington a favore delle case automobilistiche di Detroit e le tendenze protezionistiche manifestate dalla politica economica statunitense.

Da parte sua Barack Obama ha preferito mantenere un atteggiamento di basso profilo, evitando di spedire al tradizionale meeting nel resort elvetico i grossi calibri della sua nuova amministrazione. In rappresentanza di Obama era presente a Davos Valerie Jarrett – consigliere del presidente – la quale tuttavia nel suo intervento ufficiale si è tenuta ben lontana dalle tematiche più calde, lasciando piuttosto al deputato democratico dello Stato di Washington Brian Baird l’incombenza di difendere le mosse del proprio governo, facendo notare come lo stesso Adam Smith avesse sostenuto la necessità in periodi di crisi di proteggere determinate industrie in alcuni settori chiave dell’economia.

In una situazione mondiale che non promette miglioramenti nel breve periodo, l’idillio tra la nuova America di Barack Obama e le altre principali potenze economiche del pianeta rischia così di incrinarsi fin troppo rapidamente sul tema del commercio estero. A testimonianza delle tensioni in atto – e del fatto che non esattamente tutto il mondo ha visto con entusiasmo l’uscita di scena di George W. Bush – prima ancora del raduno di Davos vi erano state frizioni tra il governo cinese e il Segretario alle Finanze americano Tim Geithner. Quest’ultimo, infatti, con una netta inversione di rotta rispetto alla precedente amministrazione, aveva accusato Pechino di aver intenzionalmente manipolato la propria valuta per sostenere le esportazioni. Un confronto per ora dai toni ancora contenuti quello tra USA e Cina intorno agli scambi commerciali, ma che rischia di mettere in pericolo l’efficacia stessa del pacchetto Obama, il cui finanziamento dipenderà in buona parte proprio dalla disponibilità del governo cinese di continuare ad essere uno dei primi acquirenti del debito pubblico americano.