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Categoria: Esteri
di Eugenio Roscini Vitali

Mancano poche ore all’apertura dei seggi per il rinnovo della Knesset, una consultazione importante, forse più di altre, perché si è arrivati alle elezioni dopo un’inchiesta scandalo che ha travolto il Capo del governo e dopo un’operazione militare che ha dimostrato quanto la crisi israelo-palestinese non possa più essere risolta con l’uso armi. A contendersi la guida del paese ci sono i centristi di Kadima, guidati dal ministro degli Esteri Tzipi Livni, il Likud di Benjamin “Bibi” Netanyahu, i Laburisti del ministro della Difesa Ehud Barak e i nazionalisti russofoni del Yisrael Beytenu di Avigdor Lieberman, ministro degli Affari strategici fino al gennaio 2008 con il governo Olmert. Il risultato, che fino a qualche settimana fa dava in netto vantaggio il Likud, sembra ora più incerto, almeno per quanto riguarda le percentuali di vittoria che costringono la destra “moderata” a fare i conti con gli altri partiti. A meno di una settimana dal voto, un sondaggio fatto dal centro di ricerche statistiche “Dialog poll” divideva i 120 seggi del parlamento tra dodici partiti: 28 deputati al Likud, 25 a Kadima, 15 al Yisrael Beytenu, 14 ai Laburisti, 10 agli ultra ortodossi dello Shas, 5 alla sinistra sionista del Meretz e 5 alla coalizione ultra ortodossa Yahadut Ha-Torah, risultato dell’alleanza di due partiti minori: Agudat Israel e Degel HaTorah. Con 4 seggi seguono poi la Lista araba unita e i sionisti dell’Ichud Leumi; con 3 i comunisti di Hadash e Habayit Hayehudi, l’organizzazione politica che si oppone al ritiro dei coloni dai Territori occupati, e con 2 al partito arabo Balad e il Gil, il partito dei pensionati che non ha ancora fatto sapere con quale blocco si schiererà, se con il centro-sinistra o con la destra. E’ evidente che se domani le urne dovessero confermare i sondaggi, nessun partito sarebbe in grado di guidare da solo il paese, anzi, la frantumazione del voto renderebbe difficile anche la formazione di qualsiasi coalizione.

Una delle ipotesi meno probabili è la nascita di un governo “di unità nazionale” formato da Likud, Kadima e dal partito Laburista; ultima spiaggia per una governabilità affatto garantita. C’è poi la remota possibilità che Kadima, se pur di misura, vinca il confronto con la destra: per Tzipi Livni le speranze di formare un governo sarebbero comunque nulle in quanto all’affermazione del centro dovrebbe corrispondere una crescita sensibile dei suoi alleati più tradizionali, cosa alquanto difficile visti i consensi raccolti da Yisrael Beytenu e Shas. Inoltre, la signora Livni deve confidare sul fatto che Barak non ceda alle velate proposte di Netanyahu, negli ultimi giorni particolarmente lusinghiero con il leader laburista per le competenze dimostrate durante l’operazione Piombo fuso. Sull’altro fronte la situazione è altrettanto complicata: assodato che la convivenza tra Laburisti e Yisrael Beytenu è praticamente impossibile, a Netanyahu non rimane altro che guardare a destra.

Il Likud e Yisrael Beytenu hanno un obbiettivo comune: governare. Nei confronti di Avigdor Lieberman, Netanyahu mantiene però un atteggiamento di diffidenza, una posizione già dimostrata in campagna elettorale con affermazioni quali “votare per Yisrael Beytenu significherebbe indebolire la destra e rafforzare Kadima”. Ma sa anche che con una crescita di 4 deputati, 6 per i più ottimisti, il partito nazionalista dell’ex ministro agli Affari strategici può superare i Laburisti e diventare la terza forza politica del paese, una presenza in numeri che fa di Yisrael Beytenu un vero e proprio oggetto dei desideri. Il blocco di destra potrebbe essere quindi formato dal Likud, dal partito di Lieberman, dallo Shas di Eli Yishai e dal quel gruppo di partiti appartenenti alla corrente più oltranzista del sionismo ed dell’ortodossia israeliana.

Ci sono però un paio di problemi: i rapporti tra i futuri alleati e i precedenti, piuttosto discutibili, di Avigdor Lieberman. L'ebreo moldavo, da sempre convinto che per gli ebrei l’unica soluzione possibile sia l’espulsione della popolazione araba dallo Stato di Israele, vanta una precedente militanza nel Kach, la formazione di estrema destra religiosa dichiarata definitivamente illegale nel 1994, e la definizione di “fascista” con la quale è stato più volte etichettato; “pregi” che fanno di Lieberman un alleato scomodo, uno per il quale il gioco può non valere la candela. Tra Shas e Yisrael Beytenu, fondamentalmente laico, ci sono poi rapporti piuttosto tesi: durante la campagna elettorale Eli Yishai, che punta alla difesa dei valori tradizionali, ha ammonito gli elettori dal votare un partito laico quale è quello guidato da Lieberman perché ritenuto lontano dai valori della cultura religiosa e degli usi ortodossi rappresentati dallo Shas.

Insieme alla mancato stanziamento dei fondi per le famiglie povere e alla garanzie sull'indivisibilità di Gerusalemme, questa era stata una delle ragioni per cui, nell’ottobre scorso, il partito nazional religioso di Yishai, ministro e vice-premier con Olmert, aveva abbandonato la coalizione guidata dalla Livni, favorevole ai matrimoni civili. Ma tra Shas e Yisrael Beytenu la crisi é dovuta soprattutto all’emorragia di voti persi tra gli elettori sefarditi che secondo i sondaggi starebbero confluendo verso i nazionalisti di Lieberman.

Con Yisrael Beytenu al governo sarebbe inoltre impossibile pensare ad un qualsiasi piano di pace israelo-palestinese, progetto caro all’attuale amministrazione della Casa Bianca. Netanyahu, che non può fare a meno dell’aiuto americano e che in campagna elettorale si è impegnato con gli elettori su un piano che prevede il rilancio dell’economia israeliana, si è già detto disposto a proseguire sulla strada imboccata da Olmert ad Annapolis. Secondo la teoria per la quale la continuità politica di un governo è rappresentata dalla sola ratifica degli accordi presi dalla precedente amministrazione e in base alle esperienze passate, “Bibi” riconoscerebbe unicamente l’intesa sottoscritta nel Maryland e non le offerte fatte successivamente.

Netanyahu si è infatti dichiarato contrario ad un completo ritiro israeliano dalla Cisgiordania, così come si è sempre opposto al disimpegno israeliano da Gaza, e non si è detto disposto ad affrontare il problema relativo al rientro di svariate migliaia di profughi arabi in Israele o ad una soluzione internazionale per Gerusalemme. Per motivi di sicurezza nazionale ha anzi chiesto che lo Stato ebraico mantenga il controllo di due zone cuscinetto di fondamentale importanza per la sicurezza dei confini orientali, la Valle del Giordano e il deserto della Giudea.

E’ opinione diffusa che, oltre alla crisi israelo-palestinese, il rapporto tra Netanyahu e i principali partiti nazionalisti ed ortodossi di destra potrebbe colpire gli interessi della già bistrattata minoranza araba, soprattutto visto il programma di personaggi come Lieberman che in campagna elettorale ha portato avanti slogan come “nessuna cittadinanza senza lealtà” e ha proposto un programma di assimilazione che prevede un giuramento di fedeltà allo Stato d'Israele e alla sua natura “ebraica”, pena il ritiro della cittadinanza. Per gli arabi il pericolo maggiore rimane comunque la sfiducia e il disinnamoramento verso la politica.

Critici verso il Partito laburista e il Meretz, ai quali hanno spesso dato una fiducia non contraccambiata, e verso il Partito comunista, che non ha fatto abbastanza per difendere i loro diritti, e stanchi di promesse di uguaglianza mai mantenute, i palestinesi con cittadinanza israeliana, che rappresenta circa il 20% della popolazione, potrebbero non recarsi alle urne, un fatto che diminuisce notevolmente un percentuale di affluenza che dovrebbe essere inferiore al 45%.