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Categoria: Esteri
di Eugenio Roscini Vitali

La Corte Penale Internazionale dell'Aja (CPI) ha emesso un mandato di arresto per Omar Hasan Ahmad al-Bashir, Presidente e padrone del Sudan, salito al potere il 13 ottobre 1989 con un golpe che rovesciò il primo ministro Sadiq al-Mahdi. Al-Bashir è accusato di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, reati relativi alle vittime del Darfur morte durante gli anni del conflitto iniziato nel febbraio 2003; la Corte, che non ha imputato il leader sudanese per il reato di genocidio perché non in possesso degli elementi necessari a dimostrarlo, sceglie una posizione meno intransigente di quanto richiesto da gran parte della comunità internazionale e dalle organizzazioni per i diritti umani che, al contrario, lo ritengono responsabile di un tentativo di pulizia etnica che avrebbe puntato ad eliminare le popolazione non islamica del Darfur. Nel folle tentativo di arabizzare il Sudan occidentale, il regime sudanese avrebbe infatti affiancato all’esercito regolare le famigerate milizie Janjawid, bande di predoni a cavallo reclutate fra i membri delle locali tribù nomadi dei Baggara, che in cinque anni hanno ucciso, saccheggiato e distrutto villaggi, provocato la morte violenta diretta ed indiretta quasi 200 mila persone, la fuga di due milioni e mezzo di civili e causato una delle più gravi e complesse emergenze umanitarie dei nostri tempi.

Calcolare il numero esatto delle vittime è quasi impossibile, soprattutto a causa degli insormontabili ostacoli posti dal governo sudanese che ha sempre tentato di coprire i massacri e gli effetti del conflitto, ma per avere un’esatta dimensione delle atrocità e del fatto che è difficile non parlare di genocidio, basta dare uno sguardo alle cifre. Nel settembre 2004 l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) valutò che le vittime fossero 50 mila, la maggior parte delle quali per fame; ad ottobre dello stesso anno erano 120 mila; nel marzo 2005 l’agenzia dell’Onu deputata a coordinare i soccorsi arrivò a dire che i soli morti per fame e malattie fossero più di 10 mila al mese.

Il 1 febbraio 2007 il sito delle Nazioni Unite UN News Service ha dichiarato che in Darfur le persone uccise sono più di 200 mila, almeno 2 milioni i profughi e circa 4 milioni i civili che dipendono da aiuti esterni; riferendosi all’area del Sahara toccata dalla crisi umanitaria alcune organizzazioni arrivano addirittura a quasi 800 mila morti, molti dei quali periti a causa della mancanza di soccorsi. Due terzi degli sfollati che soffrono le conseguenze delle violenze fanno parte della popolazione del Darfur ma l'emergenza colpisce anche il Centrafrica settentrionale e una vasta area del Ciad orientale, zone dove gli sfollati hanno cercato riparo ma dove si sono scontrati con realtà altrettanto agghiaccianti, come i campi profughi sovraffollati, la carenza di aiuti umanitari già insufficienti alle poverissime popolazioni locali e il sempre più diffuso uso delle violenza sessuale come arma di ricatto e umiliazione ai danni di donne e bambini.

In Ciad le agenzie umanitarie hanno inoltre dovuto far fronte alle difficoltà dovute dagli aspri combattimenti che per lungo tempo hanno visto di fronte le truppe di N'Djamena ai ribelli del Generale Mahamat Nouri, comandante dell’Unione delle forze per la democrazia e lo sviluppo (Ufdd), il gruppo paramilitare formato da disertori dell’esercito regolare che con l’appoggio di Khartoum sta cercando di rovesciare il presidente Idriss Deby, accusato di autoritarismo.

Dei due milioni e mezzo di civili sfuggiti ai massacri più della metà si è messa in salvo nei 165 campi di accoglienza messi a disposizione dall’Onu e dalle agenzie umanitarie; gli altri risiedono in comunità locali dove, nonostante la fame e la carenza di beni di prima necessità, hanno comunque trovato accoglienza. Nella disumana lotta per la sopravvivenza i più deboli sono certamente le donne e i bambini che rappresenta più della metà degli sfollati: si calcola che ogni giorno in Darfur muoiono 75 bambini sotto i 5 anni, in massima parte per infezioni e malattie che in condizioni normali sarebbero di facile prevenzione. A questi si aggiungono centinaia di casi di abusi e sfruttamento, molti dei quali all’interno delle stesse tendopoli; per raggiungere i pozzi d’acqua le donne sono costrette a lasciare i campi protetti dai peacekeeper dell’UNAMID e rischiare di essere rapite o violentate, se non addirittura uccise. Di moltissime altre persone si è invece perso il conto, gente partita dai villaggi in fiamme che non hanno mai raggiunto nessuna destinazione; comunità tagliate fuori da ogni assistenza; gruppi che sono rimasti isolati in aree rurali inaccessibili alle agenzie umanitarie, controllate dalle truppe governative o dai ribelli Janjawid.

Per ora il mandato di arresto, il primo della CPI che colpisce un capo di Stato ancora in carica, sembra non scuotere più di tanto il Generale al-Bashir che, in giacca grigia e occhiali da sole. ha risposto alla giustizia internazionale sventolando il bastone ed aizzando la folla che subito dopo la notizia ha invaso le strade di Khartoum per manifestare contro quello che un consigliere presidenziale ha definito “un piano neo-colonialista”. Come prima risposta il presidente sudanese ha subito decretato l’espulsione dal paese di 10 delle 85 organizzazioni non governative che, insieme al coordinamento degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite (Ocha), lavorano in Sudan con circa 17 mila operatori, in maggioranza sudanesi. “Hanno agito contro il Sudan e per questo le abbiamo mandate via. Ci sono molte parti che hanno approfittato della guerra in Darfur. Due miliardi di dollari sono stati spesi per le organizzazioni internazionali sul posto, che hanno perciò interesse a tenere in piedi il conflitto”. Queste le ragioni addotte all’allontanamento forzato del personale di Oxfam, Save the Children, Care, l'International Rescue Committee, la sezione olandese di Medici Senza Frontiere, Mercy Corps, Norwegian Refugee Council, Action Contre la Faim, CHF International e Solidarites.

Oltre al sostegno interno e alle titubanze della Lega Araba, che al termine di una riunione di emergenza si è detta profondamente preoccupata per le ripercussioni che l’azione della CPI potrebbe causare in Darfur, al-Bashir sa di poter contare sull’appoggio della Cina, da sempre alleata del Sudan del cui petrolio è la principale acquirente. Alle proteste di Pechino, che in sede di Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha chiesto la sospensione del provvedimento, si sono aggiunte quelle della Conferenza islamica e di grandi paesi arabi come l’Egitto e lo Yemen. Anche Mosca parla di “decisione intempestiva” ma è risaputo quanto la Russia e la Cina tengano ad un alleato al quale vendono armi da anni, probabilmente le stesse armi che nel sud Sudan, tra il 1983 e il 21 ottobre del 2002 hanno causato la morte di oltre 2 milioni di civili.

Ma il mandato di arresto contro al-Bashir può avere anche un altro significato: in Darfur la CPI si gioca la propria credibilità. Un successo renderebbe la Corte un organo al di sopra di ogni istituzione, un’autorità da rispettare e che nessuno può più mettere in discussione; in caso contrario il rischio è che la giustizia internazionale faccia un passo indietro, che i despoti e i tiranni possano non rispondere dei loro crimini e che agli assassini possa essere garantita una sorta di immunità.