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Categoria: Esteri
di Michele Paris

Il dato più rilevante della prima apparizione al di fuori dei confini americani del neo-presidente Obama risiede senza dubbio nell’abbandono dei toni manichei espressi negli ultimi anni dal suo predecessore sui temi dei conflitti internazionali e di quelli paternalistici riguardo alla necessità di una maggiore apertura al mercato da parte dei paesi europei. Certo, gli sconvolgimenti prodotti dalla crisi economica negli ultimi mesi rendevano inevitabile una sorta di mea culpa del nuovo inquilino della Casa Bianca per il perseguimento di una deregulation sfrenata dall’altra parte dell’oceano. E, allo stesso modo, ampiamente prevista era l’inversione di rotta rispetto all’unilateralismo nella gestione della politica estera di Washington durante i due mandati di George W. Bush. Nondimeno, il sollievo provato dagli americani per l’accoglienza tutto sommato positiva ricevuta finalmente in Europa dal loro presidente, è stato tale da far quasi passare in secondo piano i risultati non del tutto soddisfacenti della trasferta e le divisioni anche profonde emerse nei rapporti con gli alleati. Nel suo debutto sulla scena internazione al G-20 di Londra, Obama ha dovuto fare i conti da subito con il riconoscimento delle responsabilità del proprio paese nel giungere al caos finanziario che si è rapidamente propagato al resto del pianeta a partire dall’autunno scorso. Le accuse più o meno velate della vigilia indirizzate al sistema americano da parte di vari leader europei non hanno in ogni caso determinato il fallimento completo del meeting, come in molti temevano, né hanno impedito al presidente statunitense di raccogliere i primi consensi provenienti sia dalla stampa di casa sia dai suoi stessi colleghi.

A definire il successo - o presunto tale - di Obama sembrano essere stati in realtà più che altro questioni d’immagine, come il glamour legato alla popolarità della coppia presidenziale in Gran Bretagna o la risoluzione tramite il suo intervento di una diatriba sorta attorno ad una questione secondaria tra i leader di Francia e Cina. Le divergenze tra Obama e Gordon Brown da una parte e Sarkozy e Merkel dall’altra sulle azioni da intraprendere per combattere la crisi economica non hanno trovato invece alcuna soluzione. Combattuti tra la necessità di aprire ulteriormente i cordoni della spesa in Europa - come chiedeva Washington - e quella di creare un sistema di regolamentazione dei mercati finanziari a livello globale - secondo la richiesta franco-tedesca - i protagonisti della conferenza hanno fatto registrare un fallimento su entrambi i fronti.

Le vere cause del crollo dell’economia nei paesi più avanzati non sono state affrontate se non superficialmente, mentre sono stati stanziati circa 750 miliardi di dollari a favore del Fondo Monetario Internazionale, che tornerà così a ricoprire un ruolo di primo piano negli aiuti verso i governi più in difficoltà; auspicabilmente senza il corollario di privatizzazioni e liberalizzazioni selvagge richieste nel recente passato ai vari paesi per accedere ai prestiti erogati. Importanti passi avanti sono stati fatti anche nella lotta ai paradisi fiscali e nel fissare tetti ai compensi dei manager dei grandi istituti finanziari. Questioni, queste ultime, che peraltro hanno avuto un ruolo tutt’al più marginale nell’esplosione della crisi economica in atto.

I crediti maggiori di Obama, piuttosto, hanno riguardato ancora una volta il cambiamento di prospettiva che ha fatto intravedere per il futuro del proprio paese (la promessa di un’America da considerare non più come un immenso mercato disposto ad accogliere e a “divorare” all’infinito i beni destinati all’export dei paesi emergenti) ma anche il riavvicinamento nei confronti di Russia e Cina, paesi necessari rispettivamente, quanto meno, per risolvere la questione del nucleare iraniano e per finanziare il proprio debito pubblico in vista delle enormi spese federali per risollevare un’economia in ginocchio.

Il tema dell’approccio multilaterale nei confronti dei conflitti internazionali ha caratterizzato anche l’intervento del presidente americano al summit della NATO di Strasburgo. La scommessa di Obama - secondo molti già persa in partenza - era quella di assicurarsi l’appoggio degli alleati sul fronte afgano. Tradotto: ottenere un aumento dei militari europei tale da compensare almeno in parte le 30.000 unità promesse dagli USA per il 2009, così da evitare la pressoché totale americanizzazione della guerra in Afghanistan. La freddezza di una Europa sempre più diffidente riguardo ad un conflitto che sembra senza fine, non lasciava d’altronde molto spazio alle aspettative americane. Così, la promessa di qualche migliaia di soldati destinati all’addestramento dell’esercito locale e a garantire la sicurezza delle elezioni presidenziali di agosto è sembrato il massimo che Obama potesse ottenere.

Anche se la successiva tappa di Praga non si prospettava certo sotto i migliori auspici dopo la caduta del governo di Topolanek e le pesanti critiche rivolte al piano Obama per l’economia americana da parte del primo ministro uscente, la visita del presidente americano nella Repubblica Ceca ha rappresentato probabilmente il punto più alto della sua trasferta europea. A contribuire al suo successo è stato in gran parte il tributo conferitogli da una folla di oltre 20 mila persone nella capitale ceca. Facendo ricorso alla sua retorica più ispirata, in concomitanza con il lancio in orbita di un missile di lungo raggio da parte della Corea del Nord, Obama ha trasformato la sua visita a Praga in una crociata contro la proliferazione delle armi nucleari, sciogliendo contemporaneamente lo scetticismo dei cechi nei confronti della sua amministrazione per aver congelato il progetto di installazione di uno scudo missilistico annunciato l’anno scorso da Bush.

Il riavvicinamento al mondo islamico e le nuove fratture con Francia e Germania hanno caratterizzato infine la visita in Turchia. In uno storico intervento al Parlamento di Ankara, Obama ha ricordato le proprie radici musulmane ed ha ribadito l’importanza fondamentale di questo paese per gli obiettivi della politica estera americana nei confronti della lotta al terrorismo, della questione palestinese, dell’Iraq, dell’Afghanistan e di un possibile dialogo con Siria e Iran. Decisivo per Washington, in questo senso, resta l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, uno scenario tuttavia verso il quale continuano ad opporsi Parigi e Berlino.

Una prima missione all’estero insomma, quella di Barack Obama, all’insegna del tentativo di ristabilire i fili del dialogo con l’Europa e l’Islam moderato interrotto o reso difficoltoso dall’invasione americana dell’Iraq del 2003 e dalle distorsioni prodotte dalla lotta al terrorismo. Al di là dei risultati concreti conseguiti dal neo-presidente democratico sui temi dell’economia o del conflitto in Afghanistan, è forse proprio in questa prospettiva che andranno colti i frutti della sua visita europea. Per quanto le conseguenze degli sforzi diplomatici della nuova amministrazione saranno da valutare sul lungo periodo, è già sufficientemente chiaro quanto siano lontani i metodi di George W. Bush, esemplificati agli albori del suo primo mandato dai provvedimenti che accompagnarono il suo viaggio inaugurale oltreoceano nel giugno del 2001: il rifiuto del protocollo di Kyoto e l’abrogazione del Trattato Anti Missili Balistici stipulato con la Russia nel 1972 per perseguire un proprio sistema di difesa missilistica. L’America di oggi è altra cosa.