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Categoria: Esteri
di Michele Paris

Pochi giorni fa, la Corte Suprema del Perù ha emesso una sentenza esemplare nei confronti dell’ex presidente Alberto Fujimori, condannandolo a 25 anni di carcere per omicidio, sequestro aggravato, percosse e crimini contro l’umanità. Le accuse mosse contro Fujimori si riferiscono ad assassini e rapimenti commessi dal gruppo paramilitare La Colina tra il 1991 e il 1992 con l’esplicita autorizzazione presidenziale. Lo storico verdetto rappresenta la prima condanna di un presidente democraticamente eletto ed estradato dall’estero verso il proprio paese per essere processato per crimini di tale gravità. Oltre alle testimonianze schiaccianti di ex membri dello squadrone della morte peruviano, impegnato in operazioni militari contro i gruppi ribelli maoisti Sendero Luminoso e Tupac Amaru (MRTA), fondamentali nel processo contro “El Chino” - così soprannominato, nonostante le origini nipponiche - sono stati decine di documenti desecretati dal governo americano. Il controverso leader peruviano, alla guida del paese andino con il pugno di ferro per un decennio, dal 1990 al 2000, era fuggito in Giappone poco dopo aver vinto un terzo mandato presidenziale nel 2000 in una consultazione elettorale manipolata. Nel 2005, durante una visita in Cile e poco dopo l’annuncio di voler tornare sulla scena politica del proprio paese, venne arrestato ed estradato. La recente condanna andrà ad aggiungersi ad un’altra di sei anni già emessa a suo carico dalla giustizia peruviana, nel dicembre del 2007, per aver ordinato una perquisizione illegale presso la residenza della moglie di Vladimiro Montesinos, già capo dei servizi segreti durante la sua presidenza, con l’intento di appropriarsi di documenti e registrazioni compromettenti.

I due episodi più cruenti che hanno portato alla condanna di Fujimori sono legati ad altrettanti massacri ed esecuzioni. Il primo avvenne il 3 novembre 1991 nel quartiere Barrios Alto della capitale Lima. Nel corso di un barbecue all’aperto, una squadra agli ordini dello stesso Montesinos assassinò 14 persone ed un bambino di 8 anni, testimone della strage. Il secondo caso riguarda invece il rapimento e l’uccisione di 9 studenti ed un professore, commesso il 18 luglio 1992, dai dormitori dell’Università La Cantuta di Lima. Oltre a ciò, l’ex presidente peruviano è risultato colpevole anche dell’organizzazione del rapimento, sempre nel 1992, del giornalista Gustavo Gorriti e dell’imprenditore Samuel Dyer, entrambi in seguito rilasciati.

Il coinvolgimento di Fujimori nelle operazioni è stata confermata da una serie di file recuperati dal disco fisso di un computer del servizio segreto peruviano (SIN). Da qui le prove che l’approvazione di un budget specifico per le attività clandestine di anti-terrorismo giungeva direttamente dal vertice dello stato. La struttura di comando delle unità paramilitari inoltre – come hanno confermato ex appartenenti alla squadra della morte – era fortemente gerarchizzata e le missioni venivano controllate dall’alto. A dare il colpo di grazie alle speranze di Fujimori di uscire indenne dal processo è stata verosimilmente l’apparizione di Vladimiro Montesinos con una testimonianza che ha posto anche la pietra tombale sul suo rapporto di fiducia con l’ex presidente.

I documenti declassificati dagli Stati Uniti comprendono una nota dell’allora ambasciatore americano a Lima, Anthony Quainton, il quale in seguito ad un incontro con Fujimori nel dicembre del 1991 concluse che l’ex presidente aveva mentito circa il suo coinvolgimento nella strage del Barrios Altos. Sempre secondo l’ambasciata statunitense, Fujimori aveva impiegato una “strategia segreta per combattere in maniera aggressiva i gruppi rivoluzionari attraverso operazioni terroristiche, senza alcun riguardo per i diritti umani e il rispetto della legalità”. Un dispaccio del 1990 del Dipartimento di Stato descriveva poi alcune informazioni ricevute da una fonte di intelligence peruviana - un ex ufficiale di marina - che confermava come le operazioni che portavano ad omicidi di sospetti terroristi al di fuori della legge avevano “la tacita approvazione del presidente Fujimori”.

“Le accuse sono state provate al di là di ogni ragionevole dubbio” ha dichiarato nella sentenza il giudice César San Martín, presidente del collegio che ha giudicato Fujimori in un aula di tribunale ospitata da una caserma delle forze speciali alla periferia della capitale. Sia all’esterno della struttura che per le strade di Lima si sono immediatamente scatenate le reazioni dei sostenitori dell’ex presidente e dei familiari delle vittime, questi ultimi appoggiati dalle organizzazioni per i diritti umani. Il 70enne Fujimori - ancora piuttosto popolare in Perù - nei prossimi mesi dovrà fronteggiare un nuovo processo per corruzione legato agli eventi che portarono alla caduta del suo regime nel 2000, mentre la sentenza di appello per la condanna ricevuta in questi giorni potrebbe arrivare tra circa sei mesi.

Le simpatie di cui tuttora gode Fujimori ai vertici dell’establishment politico peruviano (a cominciare dal presidente Alan Garcia, anch’egli sotto indagine per crimini contro i diritti umani commessi durante il suo primo mandato, nella seconda metà degli anni Ottanta) potrebbero però profilare nel prossimo futuro un evoluzione diversa della sua situazione. La figlia ad esempio - la parlamentare Keiko Fujimori - ha già annunciato la sua candidatura alle elezioni presidenziali del 2011. Se eletta, la 34enne eletta al Congresso del Perù nel 2006 ha già promesso un provvedimento di grazia per il padre.