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Categoria: Esteri
di Eugenio Roscini Vitali

“Non dico che Mahmoud Ahmadinejad è un agente del Mossad. Assolutamente no, non voglio essere citato in giudizio per diffamazione. Sto solo dicendo che se lo fosse non si sarebbe comportato diversamente. E anche che se non fosse esistito il Mossad avrebbe dovuto inventarlo”. Parole che fotografano una situazione evidente, l’eccesso comportamentale di un capo di Stato che Uri Avnery, scrittore e pacifista israeliano, analizza in un articolo pubblicato dall’agenzia di stampa palestinese Ma’an: “Can two walk together?” Il riferimento è al discorso pronunciato dal presidente iraniano il 20 aprile scorso alla Conferenza sul Razzismo di Ginevra, vertice promosso dalle Nazioni Unite e disertato da Israele, Stati Uniti, Italia, Australia, Canada, Olanda, Polonia, Nuova Zelanda e Germania. Una messa in scena, per altro preannunciata, che ha offeso l’oggetto stesso della riunione ma che alla fine ha ottenuto il risultato desiderato: creare confusione e dividere. Ventitré diplomatici europei che sono usciti dall’aula; numerosi delegati che hanno espresso sostegno al discorso contro Israele; paesi arabi che hanno accusato Teheran di aver compattato l’opinione pubblica a favore dello Stato ebraico; uno stop al processo di pace israelo-palestinese e una nuova visione del futuro Medio Oriente. Uri Avnery pone l’accento su una questione che appare scontata ma che evidentemente così scontata non é: memori di quanto accadde nel 2001 in Sud Africa, era naturale pensare che anche in questo caso il forum sul razzismo si sarebbe trasformato in una sorta di processo contro Israele.

L’occupazione militare dei territori, gli insediamenti, il muro, l’isolamento di Gaza, il rifiuto del diritto al ritorno, la così detta “guerra di necessità”, sono tutte questioni alle quali si oppongono anche molti israeliani, che sono davanti agli occhi di tutti e che possono essere risolte solo attraverso il dialogo e la mediazione. Questioni che quindi non spiegano un’azione politica che nel vicino Medio Oriente non avrebbe potuto fare altro che scavare un solco ancora più profondo di quello che già divide gli arabi dagli ebrei. E allora perché mettere a disposizione di Ahmadinejad la tribuna delle Nazioni Unite?

In questo clima il fronte filo israeliano si è trasformato in un soggetto politico eterogeneo, composto da chi ha deciso di non partecipare e chi ha inviato una rappresentanza troppo fragile per far fronte a quelli che a Ginevra sono arrivati con tutt’altre intenzioni. E così, dal cappello a cilindro è uscito Ahmadinejad, unico capo di Stato presente alla Conferenza e per questo il primo oratore ad aver diritto alla parola: quasi una scena pianificata. Il presidente iraniano non si è fermato alle solite critiche sulla causa della diaspora palestinese, cosa tra l’altro oggettivamente facile, ma si è lasciato andare ad una serie di accuse che hanno trasudato odio, una manifestazione che paradossalmente si è trasformata subito in un aiuto incalcolabile per Gerusalemme. Un finale che neanche i “Savi di Sion” avrebbero potuto prevedere, messo in scienza nel giorno dell’Olocausto, nel giorno in cui il mondo si raccoglie intorno al popolo ebraico per commemorare con rispetto le vittime dello sterminio nazista. Ma allora perché trasformare la Conferenza contro il razzismo in una teatrale dimostrazione di xenofobia?

Il presidente israeliano Shimon Peres ha definito il discorso pronunciato da Ahmadinejad come “il più celebre libello antisemita mai comparso”, un discorso anticipato da una intervista rilasciata poche ore prima al Los Angeles Times nella quale il leader iraniano dichiarava tra l’altro che “la sorte di Israele è segnata, come quella di un aereo senza motore”. Effettivamente, nella storia delle Nazioni Unite questa è la prima volta che un capo di Stato manifesta apertamente e pubblicamente accuse addirittura risalenti ai “Protocolli dei Savi di Sion”, la pubblicazione antisemita dei primi del Novecento che parla di un fantomatico complotto di ebrei e massoni che vogliono prendere il controllo del mondo.

Negli ultimi cinquat’anni sono stati tanti leader arabi che hanno impersonato la parte del nemico di Israele: Gamal Abd An-Nasser, Yasser Arafat, Saddam Hussein, Hafez e Bashar al-Assad, Hassan Nasrallah, Khaled Mashaal. Nessuno però è riuscito ad interpretare questa parte come Ahmadinejad, il candidato ideale per vestire i panni di quello che Uri Avnery definisce sarcasticamente un “secondo Hitler”, l’uomo che sta pianificando un “secondo Olocausto” e che permette a Benjamin Netanyahu di ridisegnare il processo di pace con i palestinesi.

Proprio grazie alle dichiarazioni di Ginevra, il prossimo 18 maggio il neoletto premier israeliano potrà infatti recarsi a Washington con un piano che prevede lo smantellamento del programma nucleare iraniano, il riconoscimento da parte palestinese dello Stato di Israele come nazione del popolo ebraico - richiesta che di fatto neutralizzerebbe il diritto al ritorno dei profughi arabi - e un accordo con il governo americano che, in nome della sicurezza israeliana, definisca una serie di “limiti alla sovranità” di un futuro Stato palestinese.

Rimettere quindi in discussione la decisione di Sharon sulla scelta di lasciare la Striscia di Gaza, gli accordi di Annapolis e la politica delle concessioni che secondo la destra israeliana, non avrebbe dato risultati concreti, ma portato alla seconda guerra del Libano, all’operazione Piombo Fuso e al fallimento delle trattative sulla liberazione del caporale Gilad Shalit. Un processo di pace che Israele vorrebbe rivedere, soprattutto alla luce del fatto che Tehran non ha nessuna intenzione di fermare il suo progetto nucleare e dei nuovi equilibri mediorientali scaturiti dall’inesauribile minaccia Talebana in Pakistan ed Afghanistan.

Intenzioni confermate dal ministro degli Esteri Avigdor Lieberman che, durante la sua contestata visita a Roma, ha ribadito che l’Iran è “la più grande minaccia per la regione e un vero e proprio fattore destabilizzante per tutto il mondo” e che nei riguardi dei palestinesi il suo governo non è contro la pace ma sta riconsiderando con attenzione la soluzione dei “due Stati” in favore di una larga autonomia amministrativa da concedere alla Cisgiordania e a Gaza.

L’Iran non è mai stato particolarmente interessato alle sofferenze della Palestina e la storia ci insegna che in Medio Oriente la causa degli arabi-palestinese è stata spesso usata per interessi diversi da quelli della coesistenza pacifica. Sollevare questioni è una tattica antica, usata per anni da blocchi occidentali e orientali, da ultraortodossi e integralisti musulmani, da arabi ed ebrei: un modo per insinuare il tarlo della paura e dell’odio nella mente di chi vuole la pace. Un strategia che questa volta è partita da Ginevra.