Il dopo elezioni sulle due sponde della Green Line si sta dimostrando
pieno di insidie per entrambi gli attori della guerra mediorientale, ognuno
alle prese innanzitutto con la gestione del potere istituzionale. Dalla parte
israeliana, mentre il progetto di ritiro unilaterale di Olmert sembra ormai
dato per assodato, Kadima e Labor si stanno logorando sulla richiesta
di innalzare il salario minimo. Sul versante palestinese, al contrario, è
in corso una lotta senza quartiere fra Fatah e Hamas per il controllo
del territorio e delle forze di polizia. Diamo uno sguardo a quello che succede
nella Striscia di Gaza. Dal ritiro israeliano in Settembre, lo stato di anarchia
e violenza si è consolidato di mese in mese: le varie fazioni della polizia
palestinese agiscono come veri e propri clan che si contendono il controllo
del territorio "manu militari", Fatah contro Hamas.
Il più importante test per il neoproclamato governo di Hamas è
riportare la calma nella Striscia. Il metodo più efficace consiste nell'arruolare
attivamente tra le forze governative i vari capi fazione, in modo che tutti
i gruppi armati passino sotto il controllo del governo. La lotta interna di potere tra Al Fatah di Mamohud Abbas e Hamas
sta rendendo estremamente complessa la partita. Mentre il Presidente Abbas nomina
a capo delle forze di polizia interna un suo fedele, leader delle Brigate
dei Martiri di Al-Aqsa, il nuovo Ministro dell'Interno del governo Hamas
risponde con una mossa a sorpresa: la nomina a direttore generale del Ministero
di Abu Simhadana, numero due nella lista israeliana dei most wanted e
già sfuggito ad un tentativo di assassinio mirato nel 2004.
Fondatore dei Comitati di Resistenza Popolare, Simhadana è un eroe della seconda Intifada ed è passato dalla militanza in Al Fatah a rinforzare le fila di Hamas. Il suo gruppo armato controlla di fatto il sud della Striscia di Gaza e partecipa al lancio di razzi Qassam verso Israele. In un'intervista al quotidiano israeliano Yediot Ahronot, il ministro dell'interno palestinese Abu Halal spiega le priorità del governo Hamas: "Il confronto con la potenza militare israeliana e il processo di pace non fanno parte dell'agenda a breve termine, mentre tutti i nostri sforzi tendono a riportare la sicurezza a Gaza per i nostri cittadini, ponendo fine all'anarchia causata dai gangster delle forze di sicurezza. Per far questo, Abu Simhadana è l'uomo migliore, perché gode del supporto dell'intera popolazione e può riportare le varie fazioni sotto il controllo del governo. Non ci interessa se Israele lo considera un terrorista, la nostra attenzione va rivolta innanzitutto alle richieste del nostro popolo."
Simhadana d'altra parte ha subito dichiarato che "lavorerà per
amalgamare la polizia palestinese con i gruppi militanti", per fare dell'ala
militare di Hamas la nuova forza di controllo del territorio. Subito
dopo la nomina di Simhadana, Mamohud Abbas, con una prova di forza, ha posto
il veto presidenziale a tale nomina. Da Damasco, il leader di Hamas,
Khaled Mashal, riferendosi alle manovre di Abbas, ha duramente stigmatizzato
i cospiratori che tentano di minare la causa palestinese dall'interno. Il braccio
di ferro non potrebbe essere più esplicito ed è presumibilmente
destinato ad acuirsi nelle prossime settimane, estendendosi anche ai paesi arabi
confinanti.
Dopo il recente attentato a Tel Aviv infatti, i due buoni vicini di Israele,
Giordania ed Egitto, iniziano a mostrare i primi segni di nervosismo nei confronti
della politica dei "duri e puri" perseguita da Hamas, che non
ha condannato l'ultimo attacco kamikaze. Mentre il Ministro degli Esteri egiziano
dichiara di "non aver tempo" per incontrare l'omologo palestinese,
la Giordania ha rivolto ad Hamas la gravissima accusa di infiltrare armi
nel proprio territorio. La Siria, al contrario, ha lanciato una raccolta di
fondi tra i paesi arabi a favore dell'autorità palestinese.
Dall'altra parte della Green Line, tre settimane sono passate dalle elezioni per il rinnovo del Parlamento e la formazione del governo sembra ancora lontana. Sul cavallo di battaglia della campagna elettorale del Primo Ministro Olmert sembrano ormai non esserci più dubbi: il "piano di convergenza" per il ritiro da parte della West Bank ha ottenuto un consenso trasversale nella nuova Knesset. Mentre la liturgia diplomatica richiede la ricerca di un dialogo con l'Autorità Palestinese (ovvero solo con il suo Presidente, Mamohud Abbas), in realtà è opinione comune che lo smantellamento delle colonie più estreme avverrà unilateralmente, ritenendosi impossibile un confronto con il governo Hamas. Il Labor e la sinistra, da parte loro, cercheranno di spingere Olmert a evacuare tutti gli insediamenti in Galilea e Samaria d'accordo con i palestinesi.
Ma la vera disputa che sta inasprendo il confronto tra Labor e Kadima
riguarda la politica economica ed ha un nome ben preciso: l'innalzamento del
salario minimo. La parola d'ordine del Labor durante la campagna elettorale
è stata la promessa di portare a ottocento dollari al mese (dagli attuali
seicento) il salario minimo in Israele. Questa è la ricetta shock di
Peretz per risollevare le fortune di quella gran parte di israeliani che hanno
subito le politiche liberiste di Netanyahu, scivolando inesorabilmente sotto
la soglia di povertà. Su questa ridistribuzione del reddito si sta giocando
l'assetto del prossimo
governo: Kadima afferma che il budget statale non lo permetterebbe, il
Labor sostiene che questa manovra avvierebbe un circolo virtuoso nell'economia
del Paese.
Una questione a sé è rappresentata dal ruolo che il leader del
Labor Amir Peretz rivestirà nel nuovo governo: Ministro della
Difesa o delle Finanze? In quest'ultimo caso, riuscirebbe forse a portare avanti
lo slogan della "rivoluzione sociale" che ha contribuito al buon risultato
elettorale del suo partito.
Tuttavia, Olmert vuole tenersi stretti i cordoni della borsa e con tutta probabilità
metterà a guardia del Tesoro un suo fidato collaboratore, attraverso
il quale potrà controllare l'intero budget del governo. Le insistenti
voci che darebbero Peretz candidato Ministro della Difesa, aprono invece inediti
scenari nella politica mediorientale. Se si realizzasse, per la prima volta
alla guida
del governo e delle forze armate israeliane ci sarebbero contemporaneamente
due politici estranei alla carriera militare e che hanno una posizione sugli
insediamenti discontinua rispetto ai governi Netanyahu-Barak-Sharon. Un primo
segnale in questo senso è stata la decisione inaspettata di non reagire
all'attentato della settimana scorsa a Tel Aviv. Tutti si attendevano la collaudata
escalation di violenza alla quale ci aveva abituati Sharon, che era solito rispondere
agli attentati con vaste operazioni militari nei Territori.
Al contrario, in questo caso Olmert si è limitato alla risposta diplomatica,
revocando la cittadinanza israeliana ai ministri del governo Hamas, ma
ha ordinato all'esercito di mantenere le attuali posizioni. La probabile spiegazione
sta nel persistere degli incontri di coalizione per la formazione del nuovo
governo, in cui l'apporto della sinistra sarà fondamentale e, per la
prima volta in oltre un decennio, potrebbe aprire la possibilità di un
passo in avanti verso la soluzione del conflitto israelo-palestinese.