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Categoria: Esteri
Il contingente di 17 mila uomini annunciato da Obama non risolve certo il problema afgano; per garantire la stabilizzazione del paese gli esperti prevedono infatti la presenza sul terreno di almeno 100 mila unità, un impegno che potrebbe durare a lungo e che non può prescindere dall’abbandono di altri fronti. In alternativa, l’amministrazione americana potrebbe decidere di mantenere l’attuale status quo: una scelta che in termini militari permetterebbe forse di limitare l’aumento delle violenze ma che sotto il punto di vista politico non garantirebbe la governabilità del paese se non scendendo a patti con i leader talebani più moderati, quelli che ancora accettano il dialogo. Come ultima opzione Obama potrebbe ordinare il ritiro progressivo delle truppe: una soluzione che gli permetterebbe di minimizzare le perdite, chiudere definitivamente una campagna impossibile (soprattutto in un paese dove la presenza militare degli occidentali è considerata una sorta di occupazione coloniale) spendere meno e guadagnare consensi, lasciando comunque l’Afghanistan alla mercè delle milizie.

A quasi otto anni dall’inizio del conflitto, i talebani hanno ristabilito la loro presenza in gran parte del paese e controllano praticamente le indomabili aree tribali del Pakistan settentrionale, le zone dove la controversa politica dei “drone” ha fatto, e continua a fare, più danni che altro. Un esempio: il 23 gennaio, pochi giorni dopo l’insediamento di Obama, due missili hanno colpito un villaggio del Waziristan e, delle 22 persone uccise, 8 erano militanti di al-Qaeda, mentre le altre 14 vittime includevano un capo tribale filo-governativo e la sua famiglia. Il Pentagono è convinto che questi attacchi sono l’unico mezzo efficace per eliminare i leader di al-Qaeda e i capi talebani che si nascondono tra le montagne; l’esercito pachistano sostiene invece che la morte dei civili, i così detti danni collaterali, non fa altro che inasprire i sentimenti anti-americani delle popolazioni locali e rinforza il sostegno alla guerriglia. E non potrebbe essere altrimenti visti i 2.118 civili morti lo scorso anno, un numero mai raggiunto dall’inizio della guerra.

Per capire le perplessità americane è necessario analizzare lo sforzo statunitense e le difficoltà alle quali gli Usa potrebbero andare incontro, non ultimo il rischio che con l’andare del tempo nel paese asiatico si possano ripetere le condizioni che il 15 febbraio 1989 portarono l’Armata Rossa ad annunciare la ritirata. Vent’anni fa i sovietici compresero, anche se troppo tardi, che aumentare le truppe generava solo nuove perdite e che combattere un nemico che si muove con facilità e rapidità attraverso i confini era praticamente impossibile. Oggi gli Stati Uniti stanno incontrando le stesse difficoltà: i talebani controllano ampie zone del paese e le continue sconfitte non sembrano fiaccare minimente la loro capacità operativa. Washington deve poi far fronte ad un altro problema: le milizie stanno cercando di esportare il conflitto in Pakistan, un paese in forte difficoltà, stretto tra la morsa dell’integralismo islamico e gli interessi stranieri, che rischia di scivolare verso la china della guerra civile e dove un semplice intervento militare potrebbe dar vita ad un nuovo drammatico fallimento.

Con il compito di stabilizzare l’Afghanistan e tutelare le funzioni del governo insediatasi a Kabul il 22 dicembre 2001, dall'agosto 2003 l’International Security Assistance Force (ISAF), la forza di intervento internazionale autorizzata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con la Risoluzione 1386 del 20 dicembre 2001, è passata sotto il controllo operativo della NATO. Più di 50 mila militari, 26 team di ricostruzione provinciale (PRT) e un’Area di Responsabilità (AOR) di circa 650 mila chilometri quadrati suddivisi in cinque Comandi di Regione: il Regional Command Capital di Kabul che comprende il Quartier Generale ISAF, il Quartier Generale di Regione e la componente NATO dell’aeroporto internazionale di Kabul (5.740 unità); il Regional Command South di Kandahar (22.000); il Regional Command West di Herat (2.940); il Regional Command North di Mazar-e-Sharif (4.740); il Regional Command East di Bagram (21.000).

I dati relativi al 13 febbraio scorso parlano di 41 paesi coinvolti, 26 dei quali membri della NATO, e di una forza totale pari a 56.420 militari, 24.900 dei quali forniti dagli Stati Uniti, 8.300 dalla Gran Bretagna, 3.460 dalla Germania, 2.830 dal Canada, 2.780 dalla Francia e 2.350 dall’Italia. Il contributo americano è al primo posto anche in termini di perdite: 660 su 1086 in poco più di sette anni di guerra e un trend che passa dalle 12 vittime su 12 del 2001, anno di inizio dell’Operazione Enduring Freedom, alle 159 su 298 del 2008.

All’interno dell’Alleanza Atlantica la decisione americana di aumentare la presenza militare in Afghanistan e di spingere l’azione fino ai territori pakistani influenzati dalla presenza talebana non trova un supporto concreto. Per ora sarebbero solo due i membri disposti ad appoggiare la strategia Usa: Gran Bretagna e Polonia, che però non offrirebbero più di duemila uomini; questo almeno il prodotto del meeting della NATO tenutosi a Cracovia il 19 febbraio scorso, un risultato che non avrebbe soddisfatto il segretario americano per la Difesa, Robert Gates, piuttosto riluttante ad accettare un contributo sostanzialmente indirizzato ad attività di tipo civile o sottoforma di addestramento militare all’esercito e alle forze di polizia afgane.

Sta di fatto che per Barak Obama l’Afghanistan rimane una questiona “prioritaria”, una questione che può coinvolgere altre realtà regionali e che, nel quadro di una nuova strategia politico-militare, non può prescindere dal consenso e dal concreto sostegno degli alleati. Senza stabilità e sicurezza le promesse di una politica di aiuti umanitari, di ricostruzione rapida e di ampliamento dell’istruzione non bastano a riconquistare il cuore dei cittadini afgani.