Stampa
Categoria principale: Articoli
Categoria: Esteri

di Fabrizio Casari

Le elezioni bielorusse hanno avuto l’esito che s’immaginava. Un vero e proprio plebiscito per il presidente Lukashenko nelle urne, un vero e proprio ripudio alla sua vittoria e al suo sistema sui media occidentali. Dall’Osce al Dipartimento di Stato, fino al Cremlino, le trombe hanno squillato, per evitare che il Paese, il suo Presidente, i suoi elettori e i suoi stessi oppositori potessero risultare oggetto di analisi e riflessioni sul voto.

Lukashenko è il tipico “uomo forte”, certo poco avvezzo alla dialettica con l’opposizione; ma anche poco abituato a vederla, almeno una degna di tal nome. Ed é possibile che abbia forzato la mano, ma non ci sono notizie verificabili in questo senso, mentre gli stessi rapporti degli osservatori internazionale lo escludono.

Ma per i media e le cancellerie occidentali la percentuale vicina all’80 per cento dei voti sembrerebbe voler assegnare, di per sé, una patente di elezione truffa. E il fatto che i candidati dell’opposizione - divisi e reciprocamente ostili - abbiano raccolto pochi punti percentuali, invece di stimolare ragionamenti sull’effettivo livello di rappresentanza dei partitini da essi fondati (e da altri sostenuti e finanziati) è sembrata la prova provata di un’elezione truccata. Si é insomma assistito, come in altre occasioni, ad una vera campagna ideologica contro un Paese accusato di ideologia superata.

Il metro é sempre lo stesso: se i paesi sono occidentali o, comunque, hanno politiche filo-occidentali, la democrazia é certa e il ricorso alle urne diventa affidabile e indiscutibile; se invece il paese non inneggia al capitalismo ultraliberista e si schiera con "l'impero del male" (vedi Chavez, Castro, Lula, Ortega e altri) allora il governo diventa un regime, il Presidente un dittatore e le elezioni un imbroglio.

Va detto, peraltro, che l’anticipazione delle elezioni era stata definita “illegale” e “da eliminare” sia dai partitini oppositori sia dall’Osce, come se il ricorso anticipato alle urne non fosse pratica consueta in tutti i paesi occidentali. Ma, evidentemente, quello che vale in Europa e Usa non può valere in Bielorussia. Perché?

E non sono certo i disordini di piazza a stabilire il tasso di affidabilità dell’opposizione; il film già visto in Ucraina e Repubblica Ceka racconta bene come certe opposizioni vengono costruite a tavolino dalla NED e quanto al tasso di democraticità dei nuovi regimi dell’Est Europa (vedi, da ultimo, il caso Ungheria, con la legge che proibisce la libera stampa) è cosa tutta da discutere.

Eppure, se si considerano le elezioni una prova del gradimento popolare delle politiche governative, se si ritiene che il voto (a maggior ragione se anticipato) possa rappresentare una sorta di referendum nei confronti del sistema e di chi lo incarna, bisognerebbe chiedersi come mai quattro giorni di urne aperte, con osservatori internazionali attenti ad ogni minimo inconveniente, producano un plebiscito governativo e riducano l’opposizione e i suoi alleati internazionali a poco.

Alla vigilia del voto, il britannico The Guardian, aveva scelto di analizzare la situazione della Bielorussia senza utilizzare le lenti deformate degli interessi di Usa, Europa e Russia verso un paese di 10 milioni di abitanti, ricco di minerali e confinante con Russia, Polonia, Lettonia, Lituania, Ucraina. Un paese sul quale l’influenza altalenante di Mosca ha prodotto problemi e vantaggi, secondo le strategie del Cremlino e della loro variabilità per il controllo diretto e indiretto dell’area.

Ebbene, scriveva il The Guardian, in uno dei suoi reportage da Minsk: “Può qualcuno immaginarsi che  un leader europeo, sotto il cui mandato gli ingressi reali della popolazione crescono in maniera notevole e stabile, visto che la crescita è attestata sul 24% nell’ultimo anno, possa essere sconfitto nelle elezioni?” “Per di più - aggiungeva il quotidiano inglese - è riuscito a tenere a bada l’inflazione e in sette anni ha ridotto del 50% il numero delle persone che vivevano in povertà, evitando convulsioni sociali grazie alla distribuzione della rendita più equitativa della Regione?

Va poi aggiunto che durante l’ultimo piano quinquennale la Bielorussia ha raggiunto risultati ancora maggiori: la disoccupazione è al livello più basso che in qualunque altro paese del mondo e sia lo sviluppo economico, sia la distribuzione equa delle rendite, hanno classificato la Bielorussia tra i dieci paesi al mondo dove la distanza economica tra le persone più ricche e quelle più povere è la minore. Perché mai, con questi risultati il popolo bielorusso avrebbe dovuto votare per l’opposizione?

Ad ogni modo, si potrà anche obiettare sulla scarsa adattabilità di Lukaschenko alla dottrina liberale; si potrà anche definirlo un dittatore, secondo gli stessi parametri, ma è evidente che il nocciolo del problema è tutto politico e riguarda l’assetto politico e costituzionale di una Repubblica presidenziale che, fuori moda e fuori dal coro, attua una politica economica pianificata e centralizzata e si definisce “socialista”. Socialista e nel cuore dell’Europa: affronto intollerabile sia per chi non lo è mai stato, sia per chi odia ormai il fatto di esserlo stato.

Ovvio quindi, che da questa parte del mondo risulta molto più affascinante il modello liberista, contro il quale ci si può opporre nei fine settimana o con qualche amaro commento su quotidiani editi da bancarottieri, attenti a criticarne le storture, al limite, ma non a riconoscerle come elemento fondativo del sistema, che invece viene reputato il migliore. Anzi, l'Unico.

Ma perché un modello come il nostro, che fa dell’ingiustizia e dell’iniquità due peculiarità tra le più amare ed evidenti, che vive d’impunità per i potenti e privilegi per pochi, che è basato sulla corruzione e sul conflitto d’interessi, sul capitalismo assistito e sulla guerra dello stesso contro il lavoro, sulla pressione fiscale più forte a fronte dei servizi sociali peggiori, sulla selezione di classe e sulla disoccupazione strisciante, con il 50 per cento della ricchezza in mano al 9% della popolazione, con un modello di relazioni industriali mutuato dal secolo scorso, dovrebbe risultare affascinante anche per chi vive ad altre latitudini? E perché mai una legge elettorale come la nostra, che regala deputati a chi non ha avuto i voti corrispettivi, dovrebbe risultare più democratica di una che assegna deputati in proporzione ai voti?

Lukashenko non è un campione di democrazia e il suo modello non è certo nemmeno auspicabile - e tantomeno riproducibile - nel cuore dell’Impero. Ma scegliere una via diversa da quella del pensiero unico, puntare sull’inclusione sociale invece che sull’esclusione e ritenere le libertà collettive quali garanzie di quelle private e non come conseguenza delle stesse, non può essere derubricato come illiberale e, dunque, dittatoriale. Invece che far squillare le trombe della propaganda, sarebbe meglio squadernare lo spartito e imparare a leggere la musica. Quella che suona la sinfonia gradita e quella che, più che stonata, appare sconosciuta.