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Categoria: Esteri
di Giuseppe Zaccagni

Le istituzioni democratiche dell’occidente alzano il tiro sul Kosovo sperando che un giorno sarà tutto diverso. Per la soluzione della controversia politico-istituzionale si parla già di un passaggio all’Onu. Dovrebbe essere il Consiglio di Sicurezza ad occuparsene per garantire un certo equilibrio. Ma Belgrado protesta ed insiste sulla linea di un Kosovo serbo capace di archiviare gli scontri etnici ed ideologici. Dure prese di posizione arrivano anche dal grande alleato del mondo slavo – la Russia – che manda a dire all’occidente (tramite il ministro degli Esteri Serghei Lavrov) che ogni decisione è possibile, ma solo con il consenso delle due parti coinvolte. E nello stesso tempo Mosca ricorda che potrebbe ricorrere al diritto di veto. E così sulle Nazioni Unite si ripresenta un’arma diplomatica che era caduta in disuso dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Sin qui le posizioni della realpolitik. Rafforzate anche dall’annuncio di Slobodan Samardzic, responsabile per il Kosovo del governo di Belgrado. E’ lui che annuncia nuove consultazioni che dovrebbero portare ad un accordo sulla regione contestata con un radicale restyling favorevole, però, ai serbi. Ma sulla scena si agitano anche alcuni fantasmi della storia. Perché, non sapendo più come far parlare della loro “presenza”, si materializzano teste coronate della vecchia monarchia europea. Entrano in campo gli eredi delle ex dinastie reali di Serbia e di Albania che si dichiarano “preoccupati” sul destino del Kosovo invocando rispettivi diritti di sovranità. E in questa contesa ricompaiono i rappresentanti del casato dei Karagiorgevic (già sovrani di Jugoslavia fino al 1945 quando vennero dichiarati decaduti e condannati all’esilio) e quelli della famiglia un tempo regnante sul Paese delle Aquile. I primi richiamano i diritti serbi sul Kosovo, - considerato come culla secolare della nazione slava e della fede ortodossa - e gli altri rivendicano l'autodeterminazione all'odierna maggioranza albanese, in nome della demografia e del numero.

Il primo a parlare e a far rumore nelle diplomazie europee è il “principe” Aleksandar Karagiorgevic che coglie l’occasione della commemorazione dell'anniversario di Kosovo Polje - una battaglia-simbolo dell'epos nazionale serbo che vide nel 1389 le armate del “Santo principe cristiano” Lazar immolarsi, proprio nel cuore della provincia oggi contesa, contro l'invasione delle preponderanti forze turco-musulmane – per ricordare a tutti che: ''Il Kosovo fa parte della Serbia, da sempre, e i serbi non vi rinunceranno mai''. Gli risponde il rappresentante di un’altra casa reale, Zogu Leka, pretendente al decaduto trono d'Albania. ''Il Kosovo – afferma il monarca - non può essere imprigionato dalle provocazioni dello sciovinismo serbo e i kosovari-albanesi non possono cedere proprio ora che è stato avviato il processo di indipendenza. Il Kosovo – insiste - è terra albanese e lo sarà in eterno''.

Sin qui le dichiarazioni ad effetto rivolte ai nostalgici slavi e albanesi. Ma nello stesso tempo si riaprono le pagine della storia di queste case reali che non mollano. Da parte serba spicca così questo principe Aleksandar Karagiorgevic, erede dell'ex dinastia regnante e figura pubblica legata a partiti di governo che a Belgrado non escludono un'ipotetica restaurazione monarchico costituzionale nel Paese. Con le sue dichiarazioni si erge a paladino di un patriottismo democratico che sappia ''guardare al futuro'', digerire la secessione da Belgrado del Montenegro e comprendere tutti ''i vantaggi dell'integrazione euro-atlantica''. In pratica un monarca illuminato e pragmatico.

Sull’altro fronte si delinea sempre più Leka Zogu, il figlio di quel re Zog (un monarca che nel 1928 si legò all’Italia in funzione antijugoslava, ma che poi rifiutò il protettorato, con gli italiani che, invadendo l’Albania, lo deposero) che tentò di reclamare i suoi diritti sul trono d'Albania anche quando il paese era finito – con Enver Hoxha - nella sfera d'influenza sovietica e si era instaurato, di conseguenza, un governo comunista destinato a restare al potere per 45 anni. Zog abdicò il 2 gennaio 1946 ma continuò a reclamare diritti al trono. E nel 1977, quando il regime comunista di Tirana era già scomparso, gli Zog si rifanno vivi. Il figlio dell’ex monarca, Leka Zog (che fin dal 1961 si faceva chiamare Leka I, Re degli Albanesi), torna in patria nonostante la resistenza del governo albanese allora guidato da Sali Berisha.

Comincia una lotta per la restaurazione della monarchia, ma al referendum del 1997, il 66,7 per cento dei votanti si esprime a favore del governo repubblicano. Ma Leka contesta i risultati. Dal momento del referendum si mostra politicamente attivo. Attacca gli esponenti del governo socialista definendoli “mafiosi” e gioca la carta relativa alle pesanti difficoltà economiche dell’Albania. Cerca di presentarsi come il salvatore della patria, ma riesce solo a far intitolare una strada di Tirana a Re Zog…

L’intera vicenda kosovara, comunque, ha anche altri aspetti che il mondo occidentale sottovaluta. Perché stanno sempre più esplodendo seri problemi gestionali ed economici. Infatti da quando nel 1999, l’amministrazione del Kosovo e Metochia è passata nelle competenze della comunità internazionale, la collaborazione economica fra la Serbia e la sua regione meridionale si svolge sotto condizioni insolite: domina il commercio illegale.

Tutto è cominciato con l’arrivo in Kosovo dell’UNMIK (l’United Nations Mission in Kosovo è l’organizzazione che dovrebbe controllare la stabilità e l’autogoverno) che ha coperto, in pratica, varie forme di contrabbando. Con le merci che dalla Serbia vengono trasportate in Kosovo: liberate dalle imposte, e poi, attraverso canali mafiosi riportate in Serbia e vendute a prezzi notevolmente più alti. In questo modo si realizzano profitti ciclopici. Si tratta in genere di sigarette, materiale edilizio, alcolici e bevande. I contrabbandieri sono interessati anche ai prodotti alimentari, ad attrezzature tecniche e medicinali. C’è poi – da parte della mafia albanese-kosovara – il tentativo di mettere le mani sull’intera documentazione del catasto. La manovra è evidente: impossessarsi delle terre. Con i beni delle imprese serbe che, intanto, vengono venduti con la benedizione dell’Agenzia kosovara per i crediti. Ed è in seguito alle privatizzazioni illegali che sono state “vendute” 350 ditte a prezzo dieci volte minore rispetto a quello reale.

E mentre le forze politiche albanesi insistono sulla “proprietà” del Kosovo e sulla conseguente annessione arriva una piccola doccia fredda di stampo statunitense. Perché Washington sostiene ora che l’indipendenza del Kosovo non è realizzabile entro la fine dell’anno. In questo senso si è espresso il vice segretario di Stato Usa per gli Affari Europei ed Eurasiatici, Daniel Fried. In particolare l’esponente di Washington ha detto: “Non saremo rigidi o dottrinali”. Ma subito il “primo ministro kosovaro” Agim Ceku si è preoccupato di dichiarare che “il Kosovo non dichiarerà unilateralmente la sua indipendenza dalla Serbia senza il sostegno dell’Unione Europea e degli Stati Uniti”. Come dire che dovranno essere gli Usa e l’Ue a decidere. Ed è chiaro che Belgrado non può sintonizzarsi sull’onda di queste eventuali soluzioni.