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Categoria: Esteri

di Michele Paris

Nella giornata di sabato, il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, e il Segretario di Stato americano, John Kerry, hanno annunciato il raggiungimento di un accordo sullo smantellamento delle armi chimiche in possesso del regime siriano. I progressi diplomatici registrati a Ginevra faranno comunque ben poco per ridurre il livello di violenza nel paese mediorientale e, nel prossimo futuro, potrebbero anzi essere sfruttati dall’amministrazione Obama proprio per giustificare un intervento militare volto a rimuovere il governo di Bashar al-Assad.

Dopo intensi colloqui portati avanti fin da venerdì nella città svizzera, Lavrov e Kerry hanno tenuto una conferenza stampa congiunta per rendere noti i punti principali di un accordo che dovrebbe ora essere seguito da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

A favorire un esito per il momento favorevole era stata la rinuncia da parte della delegazione statunitense alla richiesta di includere nel testo della risoluzione l’uso della forza in caso di mancato rispetto da parte della Siria delle condizioni poste per la consegna del proprio arsenale. Vista l’impossibilità di ottenere l’approvazione di Russia e Cina per un’eventuale operazione militare, la risoluzione da presentare all’ONU dovrebbe contenere un riferimento soltanto a possibili sanzioni nei confronti di Damasco.

Secondo quanto affermato da Kerry, la prima ispezione internazionale delle armi chimiche di Assad è prevista per il mese di novembre e l’intero arsenale dovrebbe essere distrutto entro la metà del 2014. Già la prossima settimana, il governo di Damasco dovrà fornire una lista delle proprie armi chimiche, comprese le località in cui esse vengono conservate e i siti di ricerca e produzione. Alle Nazioni Unite, intanto, il segretario generale Ban Ki-moon ha fatto sapere che la Siria ha formalmente aderito alla Convenzione sulle Armi Chimiche ed entrerà a farne parte in maniera definitiva il 14 ottobre.

I dubbi sull’effettiva implementazione dell’accordo di Ginevra alle condizioni decise da Washington e Mosca sono comunque parecchi e legati in primo luogo ai tempi estremamente accelerati che sono stati previsti per un processo che, come risulta chiaro dai precedenti, in condizioni normali dovrebbe durare svariati anni.

Come ha spiegato domenica al New York Times l’esperta di armi chimiche, Amy Smithson, la situazione è “senza precedenti”, visto che si vorrebbe mandare in porto in pochi mesi un procedimento per il quale “servono probabilmente cinque o sei anni”, oltretutto in un paese dove è in corso una sanguinosa guerra civile.

Proprio le difficoltà e gli ostacoli facilmente prevedibili lasciano intravedere la possibilità da parte americana di utilizzare l’accordo sulle armi chimiche di Assad come un nuovo strumento per giungere ad un’aggressione contro la Siria. L’entusiasmo con cui Kerry ha dato l’annuncio dell’intesa nella giornata di sabato e la responsabilità conferita in gran parte alla Russia per la sua implementazione sembrano rispondere perciò ad una strategia ben precisa.

In caso di rallentamento o stallo nello smantellamento dell’arsenale siriano, cioè, gli Stati Uniti potrebbero giustificare la necessità di attaccare il governo di Assad poiché la strada diplomatica sarebbe già stata battuta senza successo nonostante il pieno appoggio dato ad essa dal governo di Washington.

La possibilità dell’uso della forza, d’altra parte, non è svanita nonostante le richieste di Damasco e Mosca di negoziare senza la minaccia di un attacco. Subito dopo le parole di Kerry e Lavrov, infatti, il presidente Obama ha tenuto a precisare che gli USA continueranno a valutare l’ipotesi di agire militarmente in Siria anche senza l’approvazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Se, infine, l’accordo sulle armi chimiche di Assad dovrebbe servire, secondo alcuni osservatori, a facilitare l’avvio di negoziati di pace attraverso la convocazione di una conferenza a Ginevra più volte rimandata negli ultimi mesi, gli Stati Uniti e i loro alleati non sembrano ancora  impegnati seriamente per questo fine.

Ben lontani dal tentare di convincere i “ribelli” a sedersi al tavolo delle trattative con un regime che sta prevalendo dal punto di vista militare, così come dall’interrompere forniture di armi e finanziamenti destinati a formazioni in buona parte affiliate al terrorismo internazionale, i governi che li sostengono hanno lanciato segnali tutt’altro che pacifici in questi giorni.

La scorsa settimana, ad esempio, è stata diffusa la notizia non solo che l’Arabia Saudita avrebbe incrementato il proprio impegno nel sostenere l’opposizione armata, ma che gli stessi Stati Uniti in concomitanza con il faccia a faccia Kerry-Lavrov hanno iniziato a trasferire armi direttamente ai “ribelli” dopo la promessa fatta pubblicamente qualche mese fa dal presidente Obama.

Washington, inoltre, continuerà a subire le pressioni sia dei “ribelli” che di paesi come Turchia o la stessa Arabia Saudita - per non parlare degli ambienti interni che da tempo vogliono una resa dei conti con il regime di Damasco - per decidere di intervenire militarmente in Siria e rimuovere Assad.

I vertici dell’opposizione sostenuta dall’Occidente non hanno infatti atteso a lungo per manifestare la loro contrarietà all’accordo di Ginevra, con i media di tutto il mondo che nel fine settimana hanno ampiamente riportato i malumori del presunto comandante delle forze “ribelli” secolari, generale Salim Idriss.

Gli Stati Uniti, in definitiva, saranno esposti a enormi pressioni nei prossimi mesi per sganciarsi dall’accordo con la Russia e tornare ai preparativi di un’aggressione militare che essi stessi hanno fin dall’inizio auspicato non tanto per punire Assad di un attacco con armi chimiche condotto con ogni probabilità proprio dai “ribelli”, bensì per determinare quel cambio di regime a Damasco che rimane in cima agli obiettivi americani per il Medio Oriente.