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Categoria: Esteri

di Michele Paris

La vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali di martedì ha fatto trarre un sospiro di sollievo a molti, soprattutto al di fuori dei confini degli Stati Uniti, per avere scampato, nel caso fosse stata Hillary Clinton a conquistare la Casa Bianca, una quasi certa escalation militare americana all’estero e un aggravamento del confronto con le potenze emergenti del pianeta.

Se pure esiste la possibilità che la politica estera del presidente-eletto sia improntata a una maggiore prudenza, le sue attitudini e i suoi orientamenti saranno tutti da verificare. Quel che è certo fin da ora, invece, è che sul fronte domestico gli Stati Uniti saranno guidati da un governo dalle connotazioni di estrema destra, improntato alla promozione di politiche nazionaliste, ultra-liberiste e, in sostanza, di duro confronto con lavoratori e classe media.

Con tutta la retorica anti-establishment e gli attacchi ai poteri forti, a cominciare da quelli di Wall Street, su cui Trump ha costruito la sua campagna elettorale, gran parte delle proposte da lui avanzate in ambito economico, energetico e delle regolamentazioni al business sono infatti ascrivibili alla più tradizionale dottrina neo-liberista.

Molti giornali americani già giovedì hanno avanzato ipotesi circa le iniziative che la nuova amministrazione Repubblicana adotterà per stimolare la massiccia crescita economica promessa da Trump. Anzi, proprio uno dei consiglieri economici di quest’ultimo, Stephen Moore, ha indicato la rotta, avvertendo che Trump sarà “il presidente con la maggiore inclinazione alla ‘riforma’ delle regolamentazioni dai tempi di Ronald Reagan”.

In concreto, l’amministrazione Trump intende cioè smantellare quanto più possibile le normative che regolano l’attività del settore privato negli Stati Uniti, da quello bancario a quello industriale, da quello sanitario a quello energetico. A guidare l’azione di Trump in questo campo è il dogma della non ingerenza del governo negli affari come presupposto per la crescita dell’economia.

Su questi temi, oltretutto, il prossimo presidente potrebbe essere in particolare sintonia con un Congresso che, pur essendo a maggioranza Repubblicana, conta numerosi deputati e senatori che nutrono serie riserve sulla sua persona. Soprattutto lo “speaker” della Camera dei Rappresentanti, Paul Ryan, anch’egli molto tiepido sostenitore di Trump in campagna elettorale, mostra da sempre una chiara tendenza a favore della deregolamentazione dell’economia.

In ambito finanziario, il primo bersaglio di Trump potrebbe essere la già debole riforma di Wall Street approvata dal Congresso all’indomani della crisi del 2008 (“Dodd-Frank”). Se l’intera legge finirà forse per sopravvivere, se non altro perché l’industria finanziaria vi si è in gran parte adattata, potrebbero venire cancellate alcune norme che limitano i profitti, così come i rischi, delle banche, tra cui la cosiddetta “Volcker Rule”, che proibisce alcune attività speculative degli istituti con capitali propri e non a beneficio dei clienti.

Per quanto riguarda l’industria energetica, Trump minaccia di dare seguito alle sue prese di posizione in senso negazionista sul cambiamento climatico e le fonti rinnovabili. Un nuovo impulso all’industria del carbone è da tempo nelle previsioni del miliardario newyorchese, assieme a una marcia indietro sui provvedimenti presi da Obama per ridurre le emissioni inquinanti, come previsto dall’Accordo di Parigi del 2015.

Secondo le aziende di questo settore, misure e regolamentazioni già adottate e da adottare creano vincoli operativi che limitano i loro profitti. La stesura delle regole è affidata soprattutto all’Agenzia per la Protezione Ambientale (EPA), sulla quale il prossimo governo avrà facoltà di agire per determinare un’impostazione più cauta e ancora più favorevole al business.

Trump potrebbe inoltre ampliare ancor più le aree territoriali e marittime degli Stati Uniti soggette all’estrazione di gas e petrolio, mentre è altrettanto probabile lo sblocco dei permessi per la costruzione del contestato oleodotto Keystone XL che dovrebbe trasportare petrolio dal Canada al Golfo del Messico passando attraverso aree considerate eccezionalmente sensibili da un punto di vista ambientale.

Particolare impegno verrà poi messo da Trump nell’erosione dei diritti del lavoro e delle normative che limitano lo strapotere delle imprese. Anche in questo caso, a essere spazzate via per prime potrebbero essere le già modeste iniziative prese da Obama, come l’aumento del salario minimo e la garanzia di un certo numero di giorni di malattia retribuiti per alcuni dipendenti pubblici e dipendenti di aziende private appaltatrici del governo federale.

Nel quadro neo-liberista in cui si inserirà l’azione di governo di Donald Trump non potranno nemmeno mancare i tagli al carico fiscale delle aziende e dei redditi più elevati. Una delle promesse centrali della sua campagna elettorale è stata appunto la riduzione della tassa sulle imprese, da quella nominale del 35% al 15%. Questa e altre misure fiscali accelererebbero il trasferimento di ricchezza verso le fasce più ricche della popolazione, già favorito durante i due mandati di Obama, e aprirebbero una voragine nei conti pubblici.

Gli orientamenti di Trump sono stati d’altra parte ben compresi dai mercati, visto che dopo un’iniziale crollo degli indici di borsa, seguito all’annuncio della sua vittoria su Hillary, si è verificata una netta risalita, a conferma di come, per il mondo degli affari, le possibilità che si prospettano di maggiori profitti prevalgano sulle incertezze e il rischio di instabilità.

Che gli orientamenti di Trump saranno sostanzialmente quelli descritti è evidente anche dai nomi che già circolano sui possibili membri della sua nascente amministrazione. A scanso di equivoci, il Wall Street Journal ha ad esempio aperto mercoledì un pezzo di analisi post-voto affermando che “svariati banchieri di Wall Street e imprenditori di successo” potrebbero essere nominati a incarichi di primo piano nella nuova amministrazione.

Emblematico è uno dei principali candidati alla guida del dipartimento del Tesoro. Per questo incarico Trump potrebbe scegliere l’ex Goldman Sachs, Steven Mnuchin, amministratore delegato della banca d’investimenti Dune Capital Management e direttore finanziario della campagna elettorale del neo-presidente. L’eventuale nomina di Mnuchin e di altre personalità gradite al mondo degli affari, come ha spiegato un consigliere economico di Trump sempre al Wall Street Journal, servirebbe a dare garanzie circa la condotta della nuova amministrazione in ambito economico-finanziario.

L’entourage presidenziale sarà infatti composto da economisti “conservatori” e uomini d’affari che da sempre promuovono “la deregolamentazione del settore privato e una tassazione più bassa per le imprese”. A conferma di ciò, giovedì è circolata la notizia che il team di Trump che si occupa del processo di transizione alla presidenza avrebbe contattato il “CEO” di JPMorgan, Jamie Dimon, per offrirgli il posto da segretario al Tesoro. Durante la campagna elettorale, Trump aveva in un’occasione definito Dimon come “il peggiore banchiere americano”.

Anche in altri ambiti, Trump sembra propenso a selezionare uomini con salde credenziali reazionarie, molti dei quali hanno fatto campagna elettorale attiva a suo favore negli ultimi mesi. Tra di essi spiccano l’ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani, o il governatore del New Jersey, Chris Christie, entrambi considerati per il ministero della Giustizia. L’ex rivale nelle primarie Repubblicane, Ben Carson, sarebbe in corsa a sua volta per il dipartimento della Salute e dell’Educazione.

Per il dipartimento dell’Interno, che negli USA ha competenze relative alla gestione del territorio e dell’ambiente naturale, i papabili sarebbero invece, tra gli altri, il fondatore di una compagnia petrolifera - Forrest Lucas - e il “venture capitalist” Robert Grady. Sulla stessa linea appaiono i criteri di scelta per il prossimo segretario all’Agricoltura, che per i media americani potrebbe essere uno tra gli imprenditori del settore agricolo Charles Herbster e Mike McCloskey.

Un altro ambito nel quale si prospetta un’evoluzione preoccupante, in linea peraltro con la tendenza registrata negli ultimi otto anni, è quello della “sicurezza interna”. Trump non è esattamente un paladino del diritto alla privacy e sono in molti a temere un nuovo assalto alle residue garanzie contro l’invadenza delle agenzie governative. Uno dei primi obiettivi, perseguito senza successo anche da Obama, potrebbe essere così l’accesso del governo alle informazioni criptate garantite ai propri utenti dalle compagnie tecnologiche americane.

Da tempo nelle mire dei Repubblicani è anche la “riforma” del settore sanitario di Obama. Trump sembra essere sulla stessa lunghezza d’onda dei suoi colleghi di partito al Congresso e l’intera legislazione rischia di essere cancellata nel prossimo futuro. Politicamente, questa mossa avrebbe tuttavia conseguenze negative, visto che decine di milioni di americani si ritroverebbero nuovamente senza nessuna copertura.

La “riforma” conosciuta come Obamacare è in ogni caso ben lontana dal garantire l’assistenza sanitaria universale gratuita o a basso costo ed è basata principalmente sul settore privato, nonché sul principio del contenimento dei costi. Gli attacchi dei Repubblicani a Obamacare vengono portati però da destra e ciò che viene proposto in alternativa è un sistema che attribuisce ancora più peso alle compagnie private.

Il segno più profondo e duraturo dell’amministrazione Trump potrebbe essere lasciato infine sulla Corte Suprema. Il tribunale costituzionale americano funziona con solo otto dei nove membri che lo compongono fin dal decesso nel mese di febbraio del giudice ultra-conservatore Antonin Scalia. I leader Repubblicani al Senato si sono finora rifiutati anche solo di considerare il candidato nominato da Obama, il giudice Merrick Garland, così che nei prossimi mesi toccherà a Trump indicare un nuovo membro.

La scelta ricadrà su un giudice conservatore e gli equilibri della Corte Suprema torneranno a essere favorevoli alla destra. Tre attuali membri, di cui due moderati e uno moderato-conservatore, sono inoltre vicini o hanno superato gli 80 anni e Trump potrebbe perciò avere la possibilità di effettuare altre nomine nei prossimi quattro anni che suggellerebbero forse per decenni l’orientamento reazionario del più alto tribunale americano. In questo caso, potrebbero essere teoricamente messe in discussione conquiste cruciali, come quella dell’aborto, o affermati in maniera sempre più decisa i diritti del business rispetto a quelli del lavoro.

In definitiva, se pure l’elezione di Trump è il risultato delle legittime frustrazioni di ampie fasce in affanno di una popolazione americana che vede nell’establishment di Washington, incluso quello rappresentato dal Partito Democratico, solo uno strumento dei grandi interessi economici e finanziari, il suo ingresso alla Casa Bianca non costituisce in nessun modo uno sbocco progressista della crisi politica e sociale che attraversa gli Stati Uniti.

Con tutte le leve del potere in mano all’estrema destra - dalla presidenza al Congresso alla Corte Suprema - l’unica prospettiva possibile è infatti un’evoluzione in senso reazionario e l’ulteriore restringimento degli spazi democratici, con tutte le conseguenze che ne deriveranno sul piano dello scontro sociale, come confermano le proteste contro Trump già esplose nelle principali città americane poche ore dopo la sua elezione alla presidenza.