di Mario Lombardo
Gli sforzi del governo americano nel costruire un fronte compatto per presentare un qualche ultimatum sulla Siria al governo russo hanno fatto segnare una battuta d’arresto martedì, quando il G7 dei ministri degli Esteri di Lucca ha chiuso i lavori senza trovare un accordo sulla possibile imposizione di sanzioni punitive contro Mosca.
Come di consueto, i partecipanti al vertice hanno provato a minimizzare le divisioni tra i rappresentanti dei sette paesi più industrializzati. Angelino Alfano ha spiegato ad esempio che il G7 “non è una sede deliberante” per quanto riguarda le sanzioni, mentre tutti i convenuti nella città toscana si sarebbero detti d’accordo circa la necessità di non isolare la Russia e di coinvolgerla in un processo politico per la risoluzione della crisi siriana.
In realtà, non solo le posizioni degli USA sembrano lasciare poco o nessuno spazio al compromesso con la Russia, ma il segretario di Stato americano, Rex Tillerson, e il ministro degli Esteri britannico, Boris Johnson, erano arrivati in Italia precisamente con l’obiettivo di ottenere un impegno dai propri partner sulle sanzioni contro il Cremlino per i fatti accaduti settimana scorsa nella provincia di Idlib.
Ciò avrebbe messo in una posizione più solida lo stesso Tillerson in vista dell’imminente visita a Mosca, dove a tenere banco sarà ovviamente la situazione in Siria. Con la minaccia di nuove sanzioni, dopo quelle adottate in seguito alla crisi in Ucraina, il rappresentante di Trump intendeva mettere Putin di fronte a una scelta chiara: scaricare l’alleato Assad in Siria, o per lo meno indurlo a farsi da parte, in cambio di una distensione con l’Occidente oppure subire le conseguenze di un’escalation militare guidata da Washington. I toni di Tillerson a Mosca potrebbero essere comunque minacciosi, ma al Cremlino non sfuggiranno le posizioni sfumate dei membri del G7 uscite dal summit di Lucca.
Nei piani di Washington rientrava anche l’ordine partito dalla Casa Bianca per il ministro degli Esteri britannico Johnson di cancellare la sua prevista visita a Mosca di settimana scorsa, in modo da consentire a Tillerson di incontrare per primo i leader russi dopo le consultazioni di Lucca. Johnson, da parte sua, aveva subito obbedito, cambiando anche significativamente i toni sulla Siria e diventando così il più acceso critico di Putin in Europa.
Le posizioni dei ministri presenti a Lucca hanno in ogni caso mostrato profonde contraddizioni, oltre alle persistenti divisioni interne al G7. Se tutti i governi che ne fanno parte si erano rapidamente allineati alle posizioni di Washington settimana scorsa, facendo quasi a gara nell’esprimere la propria approvazione per il bombardamento sulla Siria ordinato da Trump, sulle ulteriori iniziative da adottare nei confronti di Damasco e, ancor più, di Mosca la situazione è apparsa differente.
Per tutti, la priorità resta il cambio di regime in Siria, da ottenere possibilmente con pressioni su Putin ad abbandonare il proprio supporto incondizionato ad Assad. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna sembrano però determinati ad adottare anche iniziative estreme per raggiungere i propri fini, mentre altri paesi, come Germania e Italia, appaiono più cauti e, come accaduto nel caso dell’Ucraina, continuano a confidare di riuscire a convincere Putin con una combinazione di minacce e proposte distensive.
L’impossibilità di accordarsi su un nuovo pacchetto di sanzioni contro la Russia ha poi portato a una situazione al limite dell’assurdo, visto che i G7 hanno annunciato un’indagine ufficiale sul presunto attacco chimico nella località siriana di Khan Sheikhoun prima di decidere l’imposizione di misure punitive.
In altre parole, quegli stessi governi che nei giorni scorsi avevano appoggiato il bombardamento americano e si erano scagliati senza incertezze né prove contro Assad e Putin invitano oggi alla cautela e a ricercare le effettive responsabilità di quanto accaduto settimana scorsa in Siria prima di adottare sanzioni nei confronti di Mosca o Damasco.
Se i governi europei che hanno manifestato solidarietà con Washington sul bombardamento in Siria sanno perfettamente che non vi è nessuna chiarezza sul presunto uso di armi chimiche, il loro atteggiamento riflette una scelta strategica, fatta da tempo, che prevede il rovesciamento del regime di Assad e la condivisione degli eventuali vantaggi derivanti da un ordine ancora più favorevole agli Stati Uniti in Medio Oriente.
Questa ragione è sostanzialmente la stessa per cui nessun governo europeo ha finora speso una sola parola di condanna per le stragi di civili delle ultime settimane seguite ai ben documentati bombardamenti americani “anti-ISIS” a Mosul, in Iraq, o per i massacri che da oltre due anni si susseguono in Yemen per mano del regime saudita con il pieno appoggio di Washington.
Anzi, proprio i rappresentanti di Riyadh, assieme a quelli di Turchia, Giordania, Emirati Arabi Uniti e Qatar, erano presenti martedì a Lucca per sottolineare l’unità di intenti con i paesi mediorientali sulla Siria, malgrado questi ultimi siano i principali sostenitori e finanziatori dei gruppi fondamentalisti che stanno letteralmente distruggendo il paese in guerra dal 2011.
Se dalle dichiarazioni ufficiali seguite al G7 di Lucca è sembrata emergere una posizione americana più o meno allineata alla relativa moderazione dei governi europei sulla Siria o, per meglio dire, sull’attitudine da tenere nei confronti della Russia, ciò è smentito dalle dichiarazioni di esponenti dell’amministrazione Trump prima e dopo il vertice in Toscana.
Lunedì, ad esempio, il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer, aveva minacciato ulteriori iniziative militari americane se Assad dovesse usare nuovamente non solo armi chimiche ma anche “barrel bombs”. Dopo le parole di Spicer, con un tempismo perfetto il cosiddetto Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, già fonte principale di media e governi occidentali per l’attacco di settimana scorsa con armi chimiche attribuito ad Assad, ha subito segnalato l’uso da parte di Damasco di questi ordigni nella provincia di Hama.
Gli avvertimenti provenienti da Washington sembrano in fin dei conti prospettare una situazione nella quale i missili americani sono pronti a essere lanciati alla prima provocazione messa in atto dai “ribelli”, filiale di al-Qaeda inclusa, visto che anche l’episodio di Khan Sheikhoun ha tutta l’aria di essere stata una “false flag” condotta da gruppi dell’opposizione armata che operano a Idlib per far ricadere la colpa su Damasco e giustificare un’azione militare.
L’ambasciatrice USA alle Nazioni Unite, Nikki Haley, aveva invece escluso categoricamente la possibilità di una soluzione politica in Siria con Assad al potere. Lo stesso Tillerson, prima della partenza per Mosca al termine del G7 ha infine ribadito che, per il suo governo, il presidente siriano ha i giorni contati e che la Russia farà meglio a scaricarlo al più presto.
Proprio la trasferta del segretario di Stato USA a Mosca aiuterà forse a chiarire la strategia siriana dell’amministrazione Trump, visto anche che lo stesso presidente non si esprime da giorni sulla crisi in Medio Oriente. Una strategia che, al di là del bombardamento di dubbia efficacia della settimana scorsa, sembra essere ancora tutt’altro che limpida, anche se estremamente pericolosa, e affidata più che altro all’iniziativa dei generali che occupano posizioni di spicco all’interno del governo americano.