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Con le numerose questioni internazionali cha stanno occupando l’agenda dell’amministrazione Trump, gli ultimi sviluppi del conflitto in Afghanistan hanno generato poco interesse tra i media e l’opinione pubblica. Dopo quasi 17 anni di guerra, una possibile svolta decisiva potrebbe tuttavia essere in preparazione a Washington, come sembrano dimostrare i recenti contatti diretti avvenuti tra il governo americano e i rappresentanti dei talebani.

 

Le due parti non si parlavano senza intermediari dal 2015, quando un potenziale processo di pace si era arenato in fretta per poi crollare definitivamente. Ufficialmente, in quell’occasione erano stati esponenti del governo afgano a incontrare i talebani, mentre gli Stati Uniti, assieme alla Cina, avevano avuto il ruolo di osservatori.

 

 

La quasi totale assenza finora di risultati sul piano diplomatico è dovuta in primo luogo al rifiuto dei Talebani di trattare con il governo di Kabul, considerato illegittimo, e alla volontà invece di volere parlare direttamente con la forza occupante. Viceversa, per Washington qualsiasi processo di pace avrebbe dovuto essere guidato dall’esecutivo afgano.

 

Secondo le testimonianze di leader talebani raccolte dalla stampa americana, due o forse tre incontri con una delegazione dell’amministrazione Trump avrebbero avuto luogo negli ultimi tre mesi. Il luogo dei colloqui è stato ancora una volta la capitale del Qatar, Doha, sede di un ufficio politico dei talebani.

 

La rivelazione è apparsa sulla stampa solo qualche giorno fa, ma il governo di Washington aveva preparato il campo alla svolta già a metà luglio, quando sul New York Times era apparsa la notizia che il presidente aveva dato indicazione al dipartimento di Stato di sondare il terreno per possibili colloqui diretti con i talebani nel tentativo di favorire nuovi negoziati di pace.

 

Poco più tardi, il comandante delle forze di occupazione NATO in Afghanistan, generale John Nicholson, aveva poi confermato come il segretario di Stato, Mike Pompeo, avesse garantito la disponibilità americana a parlare con i talebani del “ruolo delle forze internazionali” nel paese asiatico.

 

L’ultimo summit tenuto a Doha ha avuto come protagonista una delegazione americana guidata dalla responsabile della diplomazia USA per l’Asia centrale e meridionale, Alice Wells. Per i talebani, oltre ai rappresentanti di stanza in Qatar, una delegazione è arrivata dall’Afghanistan passando per il Pakistan. Le autorità di questo paese hanno garantito il libero passaggio ai talebani, a conferma del probabile ruolo di Islamabad quanto meno nel facilitare i colloqui.

 

Le reazioni all’incontro dei talebani sono apparse fin troppo ottimistiche. Un membro di questi ultimi citato dalla Reuters ha affermato che la riunione ha dato “segnali molto positivi” e si è tenuta in un “clima amichevole”. Anche se “non è possibile parlare di colloqui di pace”, ha continuato l’esponente talebano, questo e i precedenti vertici servirebbero a preparare l’avvio di un dialogo formale.

 

L’aspetto più importante dell’evento è stato comunque quello dell’assenza del governo di Kabul. L’ufficio del presidente, Ashraf Ghani, ha avuto parole di apprezzamento per l’iniziativa americana, anche se più di un malumore deve essere circolato nelle stanze di governo in Afghanistan. Se è ovvio che a decidere le sorti del paese è il governo americano, per i membri della ristretta classe dirigente afgana che ha beneficiato dell’invasione del 2001 il ruolo futuro dei talebani è una questione che ha a che fare con la loro stessa sopravvivenza.

 

Alcune delle condizioni chieste dai talebani sono infatti viste con estremo sospetto da Kabul, a cominciare dall’ipotesi di lasciare agli “insorti” libertà di movimento, senza essere attaccati dalle forze governative o da quelle di occupazione, in due province del paese.

 

A Doha si è parlato anche della possibilità di fare entrare i talebani in un futuro governo. L’idea era già stata avanzata da Ghani, ma in molti hanno fatto notare come ciò sarebbe difficile da accettare per i membri della sua amministrazione riconducibili alla cosiddetta “Alleanza del Nord”, irriducibilmente anti-talebana. Gli stessi talebani sono tradizionalmente freddi di fronte a questa prospettiva, sia perché il potenziale gabinetto risulterebbe debole e lacerato da divisioni sia perché la loro intenzione finale è quella di riprendersi interamente il potere nel paese che hanno governato fino al 2001.

 

Per stessa ammissione degli inviati talebani a Doha, l’unica richiesta presentata dagli americani riguarderebbe il mantenimento delle proprie basi militari in territorio afgano. Ciò è evidentemente in linea con gli obiettivi strategici USA che avevano portato all’invasione del 2001, vale a dire la presenza indefinita in un’area al centro di importanti snodi commerciali e soprattutto energetici.

 

Tuttavia, anche nei giorni scorsi i talebani hanno ribadito che un vero e definitivo accordo di pace potrà avvenire solo dopo che tutte le forze straniere avranno abbandonato l’Afghanistan. Lasciare un contingente militare in questo paese sarebbe tutt’altro che semplice nel caso i talebani dovessero tornare a occupare un ruolo politico di spicco, soprattutto se un accordo di pace finisse per innescare un più o meno rapido disimpegno di Washington. Inoltre, tutte le potenze regionali, ad eccezione dell’India, spingerebbero per la chiusura delle basi militari USA in Afghanistan.

 

In attesa degli annunciati nuovi incontri tra USA e “Taliban”, le aspettative di pace per l’Afghanistan si concentrano sulle tregue che il governo di Kabul ha negoziato e intende negoziare ancora con gli “insorti”. Nel mese di giugno, durante la festività che ha chiuso il Ramadan, un cessate il fuoco era durato per tre giorni, durante i quali in varie località i militanti talebani avevano fraternizzato liberamente con civili e soldati dell’esercito governativo. Il governo e i leader talebani starebbero ora trattando una nuova tregua in occasione di un’altra festa islamica prevista nel mese di agosto.

 

I fermenti diplomatici in corso e, ancor più, il possibile cambiamento di attitudine americana sono in fin dei conti determinati dal riconoscimento di una strategia fallimentare in Afghanistan da parte delle amministrazioni succedutesi a Washington dal 2001. La revisione voluta dall’amministrazione Trump lo scorso anno si era risolta con la sostanziale accettazione delle richieste dei vertici militari, così che il contingente USA era salito a circa 15 mila uomini.

 

Questi cambiamenti non hanno ovviamente avuto alcun effetto sulla situazione generale e, a ben vedere, erano già un ammissione di sconfitta. La nuova strategia prevedeva infatti lo spostamento dell’attenzione sulle aree urbane, lasciando gran parte di quelle rurali, dove vive la maggioranza della popolazione afgana, ai talebani o tutt’al più agli sforzi delle inefficaci forze di sicurezza indigene addestrate dagli americani.

 

La decisione di puntare sul dialogo diretto con i talebani è dunque una presa d’atto della realtà sul campo, segnata da quasi 17 anni di strategie miopi basate, come ha scritto recentemente anche il cosiddetto “ispettore generale per la ricostruzione dell’Afghanistan”, sul sostegno finanziario e militare a una classe dirigente screditata, corrotta e incompetente.

 

Allo stesso tempo, la campagna militare, ufficialmente diretta contro talebani e gruppi fondamentalisti giunti da altri paesi, è sempre apparsa difficilmente distinguibile da una guerra condotta da una potenza occupante contro una popolazione ostile.

 

Il tentativo di intraprendere la strada della diplomazia è infine anche il riflesso dei cambiamenti degli equilibri strategici in atto nella regione dell’Asia centrale e meridionale. Cambiamenti che minacciano di mettere gli Stati Uniti in una situazione sempre più scomoda. Esempio lampante di ciò è la recentissima affermazione elettorale in Pakistan di Imran Khan, le cui fortune politiche sono dovute in larga misura all’opposizione alla guerra americana condotta nel suo paese e in Afghanistan.

 

Che l’abbozzo di dialogo tra gli USA e i talebani possa questa volta portare a risultati positivi è ad ogni modo molto difficile da prevedere. Quel che è certo è che risulta ancora più difficile, se non impossibile, pensare ormai anche a lungo termine a una soluzione militare favorevole agli Stati Uniti.