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Che dietro alla decisione del generale Jim Mattis di abbandonare Il Pentagono ci sia stata la scelta, apparentemente improvvisa, del Presidente di ritirare le truppe statunitensi dalla Siria e di dimezzare entro l'estate il contingente di stanza in Afghanistan, appare innegabile. L'accelerazione dell'accaduto, però, non porta con sé solo nuovi dubbi ma anche scenari inattesi. E potenzialmente foschi.

 

 

A confermare che la mossa di Trump relativamente all'impegno siriano sottenda altro, lo ha detto senza troppi giri di parole l'ex capo delle forze NATO, generale Wesley Clark, intervistato dalla CNN. "Dobbiamo davvero chiederci, perché ha preso questa decisione? La gente in tutto il mondo e i nostri alleati in Medio Oriente se lo stanno chiedendo, forse Erdogan ha ricattato il Presidente? Si è trattato della ricompensa per qualcosa? Di cosa stiamo parlando? Perché una persona dovrebbe prendere una decisione simile, strategicamente irrazionale, contraria ad ogni raccomandazione al riguardo e, oltretutto, potenzialmente mal interpretabile da altri soggetti? A causa di questa decisione entriamo in tempi pericolosi per gli Stati Uniti e la nostra politica estera". Lapidario.

 

Poi, altre due strane coincidenze. La prima, il fatto che la decisione sia arrivata pochi giorni dopo la telefonata fra Donald Trump e Recep Erdogan del 14 dicembre scorso, giorno che ha anticipato la curiosa e affrettata decisione del Dipartimento di Stato Usa di approvare la vendita di missili Patriots per 3,5 miliardi alla Turchia. Questo, a soli due mesi dall'ufficializzazione dell'acquisto di batterie missilistiche S-400 dalla Russia: "Una cosa non ha effetto sull'altra", hanno fatto sapere da Ankara. Il doppiogioco, però, appare pericoloso.

 

Poi, questo tweet, postato dalla Casa Bianca alla vigilia di Natale e dopo aver rassicurato tutti sul fatto che a quanto rimane ancora in vita dell'Isis in Siria, ci penserà appunto il governo di Ankara. Perché chiamare in causa in quello scenario, ancora potenzialmente esplosivo, l'Arabia Saudita, tutt'ora sottosopra a livello di equilibri interni dopo il caso Kashoggi che, oltretutto, vede implicata direttamente la Turchia, in quanto "scena del crimine"?

 

Gli incroci sotterranei e di diplomazie parallele sono molti. Troppi per un militare ligio al dovere, all'onore e alle gerarchie come il generale Mattis. Il quale avrebbe visto precipitare in meno di una settimana, una situazione che era comunque fuori controllo da prima. Il Pentagono, di fatto, è commissariato. E la Troika in questo caso è composta dal Presidente, dal capo del Dipartimento di Stato, l'ex direttore della Cia, Mike Pompeo e da quello che è il vero uomo forte del governo statunitense, il nuovo e potentissimo consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton.

 

E a confermare come sia stato il precipitare preoccupante degli eventi attorno alla metà di dicembre, ci ha pensato un'altra coincidenza fatta notare dai ben informati: il 20 dicembre, giorno precedente alla comunicazione delle polemiche dimissioni del generale Mattis, il Dipartimento di Stato aveva firmato il cosiddetto NICA Act (Nicaragua Human Rights and Anticorruption Act), di fatto l'ultimo avvertimento di Washington al governo di Ortega, contenente azioni dirette per la “reinstaurazione della democrazia” nel Paese. Visti i precedenti storici, un atto di guerra coperto dal maquillage dei diritti civili.

 

Ed eccoci al presente. Un presente che ha visto che Donald Trump cogliere la palla al balzo, annunciando che il vice di Mattis, l'ex presidente della Boeing, Patrick Shanahan, diverrà segretario alla Difesa già dal 1 gennaio e non a inizio marzo come comunicato dal dimissionario generale. Il suo compito? Mantenere i rapporti con i grandi contractor, di fatto essere il punto di riferimento del complesso bellico-industriale, il cosiddetto warfare e gestirne i rapporti con le istituzioni politiche e con quelle finanziarie (Wall Street).

 

Alla politica di Difesa, ci penserà la Troika. Nella fattispecie di quanto starebbe per accadere, John Bolton. Il quale sarebbe a capo del progetto di rilancio in grande stile al Pentagono della cosiddetta "dottrina Cebrowski", ovvero un piano di destabilizzazione/stabilizzazione di governi stranieri che vide la luce per volontà diretta dell'allora segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld e prese il nome appunto dall'ammiraglio Arthur Cebrowski, cui la mente dei neo-con affidò il neonato Office of Force Transformation, ennesimo addentellato della grande strategia post-11 settembre.

 

La teoria si basava su due caposaldi: il Medio Oriente, da stabilizzare in base agli interessi statunitensi e degli alleati nell'area e il cosiddetto Caribbean Basin, ovvero un grande piano di eliminazione di soggetti "comunisti" dall'America Latina, quasi una fase due delle grandi operazioni della Cia nel sub-continente, a partire proprio dai contras anti-sandinisti in Nicaragua. In molti sono certi che il disimpegno da aree calde ma potenzialmente troppo dispendiose e pericolose per gli Usa, alla vigilia di una recessione e del mal contento popolare che essa porterà con sé e che la Casa Bianca dovrà gestire in vista del voto del 2020, sia però finalizzato anche ad altro: un spostamento in grande stile degli equilibri e degli sforzi verso la fase due della "dottrina Cebrowski". Ovvero, la più vicina, spendibile e gestibile agenda relativa all'America Latina.

 

Due i bersagli: il Venezuela di Maduro e il Nicaragua di Ortega. Alleati principali nel piano di Washington, la Colombia e il Brasile, entrambi ora con governi dichiaratamente filo-statunitensi e anti-comunisti. In tal senso, appare di fondamentale importanza per l'implementazione del piano, la recente e schiacciante vittoria alle presidenziali brasiliane del candidato di destra, Jair Bolsonaro. Il quale, soprattutto, porterà con sé al governo come braccio destro (e operativo) l'uomo che già oggi starebbe lavorando a stretto contatto con il team di John Bolton e del Dipartimento di Stato guidato da Pompeo, il generale golpista e neo vice-presidente, Hamilton Mourão. Il quale, in una recente intervista con il settimanale Piauì aveva annunciato proprio l'imminente rovesciamento del governo venezuelano di Nicòlas Maduro e il dispiegamento di una "forza di pace" a guida brasiliana nel Paese.

 

Vista la gravità delle dichiarazioni, lo stesso Bolsonaro si era affrettato a smentire il suo numero due, sostenendo che il Brasile non ha intenzione di muovere guerra a nessuno e che, di fatto, il generale era andato fuori dalle righe. Restano però agli atti altre dichiarazioni al riguardo. La prima, quella appunto di John Bolton durante un intervento a Miami il 1 novembre, nel quale definì Cuba, il Venezuela e il Nicaragua "la Troika della tirannia", seguita il mese successivo, il 1 dicembre, da quelle dello stesso Jim Mattis di fronte al Reagan National Defense Forum, platea alla quale disse che "Maduro è un despota irresponsabile che deve andarsene". Forse, nemmeno il numero uno del Pentagono sapeva quanto fosse avanzato il piano per rendere quelle frasi, realtà. Lo avrebbe scoperto poco dopo.

 

Infine, il 12 dicembre, fu proprio il sempre più accerchiato Nicòlas Maduro a rivelare come John Bolton stesse gestendo il coordinamento fra i team del presidente colombiano, Ivàn Duque e quello del vice-presidente brasiliano per far entrare il progetto in fase operativa. Circa 750 mercenari sarebbero già sotto programma di addestramento specifico a Tona, nel dipartimento di Santander in Colombia, mentre la strategia che dovrebbe spianare la strada al loro intervento si baserebbe sull'organizzazione di un falso attentato, cosiddetta false flag, appunto contro il governo colombiano e da attribuire direttamente al Venezuela per scatenare il casus belli.

 

In supporto ai mercenari ci sarebbero le forze speciali Usa di stanza nelle basi di Tolemaida in Colombia ed Eglin, in Florida e il piano avrebbe come primo atto la conquista di tre basi dell'esercito venezuelano: Palo Negro, Puerto Cabello e Barcelona. Di fatto, una guerra lampo, nella speranza che, una volta conquistati i tre avamposti, saranno le diserzioni di massa e la rabbia popolare a far capitolare a tempo record Maduro e i suoi fedelissimi. Poi, toccherebbe al Nicaragua di Ortega, di fatto accerchiato politicamente.

 

Insomma, l'amministrazione Usa starebbe per avvicinare a casa il concetto di esportazione della democrazia, unendolo di fatto con un sempreverde della retorica statunitense, l'anti-comunismo nel giardino di casa. E, soprattutto, starebbe per passare alle vie di fatto, dopo le pressioni diplomatiche sul cosiddetto Gruppo di Lima, affinché marginalizzasse Maduro e il suo governo in sede diplomatica latino-americana, a partire dalle contestazione di massa della validità del voto presidenziale. Poi, l'ondata di migrazione, le immagini della povertà che attanaglia Caracas come campagna mediatica di largo spettro, oltre alle sanzioni e al bando sull'export petrolifero, di fatto bypassato ma in maniera marginale soltanto dalle due grandi potenze rivali degli Usa, la Russia e la Cina.

 

Poco, troppo poco per Washington. Che ora, sembra gettare i dadi di una spartizione quasi tacita. La Cina sempre più presente in Africa e sempre più strategicamente vicina a Israele, con la gestione del terminal del porto di Haifa, storica "casa" nell'area della Sesta Flotta, appaltata per 25 anni a partire dal 2021 alla Shanghai International Port Group (SIPG) e la China Harbor Engineering che invece un porto nuovo di zecca (3 miliardi di dollari di investimento) lo costruirà ad Ashdod, quaranta chilometri a Sud di Tel Aviv.

 

Mentre Mosca che, di fatto, con l'addio della presenza Usa trasformerà la strategica Siria in un protettorato pressoché ufficiale. Come dire, l'America Latina è cosa nostra. E se la Colombia si presta all'operazione sia per ragioni ideologiche che di accreditamento verso Washington, una sorta di assicurazione politica dopo anni di contrapposizione legate ai cartelli dei narcos e alla lotta contro le Farc, il Brasile ha una ragione in più.

 

Anzi, 30 miliardi di ragioni in più. La cifra che, infatti, il governo Bolsonaro vorrebbe introitare nelle esangue casse statali dai diritti di esplorazione e sfruttamento del vero tesoro brasiliano, quello mostrato in questa cartina: il progetto prè-sal nell'area off-shore localizzata fra gli Stati di Santa Catarina ed Esperito Santo, nel golfo di Santos.

 

Si tratta di rocce sottomarine con potenzialità effettive di generazione e rilascio di greggio, chiamate in quel modo perché tale strato roccioso si trova sotto un esteso sedimento di sale che, in alcune zone della costa, può essere spesso anche più di 2.000 metri. Fino ad oggi, sono stati molti i soggetti esteri interessati a quel tesoro sottomarino, ultima la saudita Aramco ma il controllo è rimasto saldamente nella mani del gigante energetico statale Petrobras, attraverso un azienda-veicolo denomimata Presal. L’obiettivo dichiarato di Brasilia ora sarebbe il raggiungimento di un’estrazione quotidiana di 4,4 milioni di barili di greggio entro il 2020 e, per questo, Jair Bolsonaro pare intenzionato a velocizzare le operazioni, al fine di garantirsi contratti per almeno 120 miliardi di reais, 31 miliardi di dollari appunto, attraverso capitali privati esteri. Nemmeno a dirlo, statunitensi in prima fila.

 

In tal senso, il presidente ha già nominato un suo consigliere speciale per le privatizzazioni del ramo energetico - le stesse che in un passato recente aveva avversato, in nome di un populismo tout court - Luciano de Castro, il quale ha recentemente confermato l'operazione cosiddetta di transfer of rights relativa all'area prè-sal in un'intervista con Bloomberg. Di più, prima ancora di entrare in carica il 1 gennaio e con il presidente del Senato brasiliano, Eunicio Oliveira, già sul piede di guerra per questa accelerazione, Bolsonaro ha anche scelto il nuovo amministratore delegato di Petrobras, l'avvocato d'affari e fan delle privatizzazioni, Roberto Castello Branco.

 

In un evento tenutosi a metà dicembre a Rio, l'analista per il ramo energetico di Ubs, Luiz Carvalho, ha confermato inoltre che i progetti in essere per il bacino, stante le sue potenzialità, resterebbero profittevoli addirittura con il prezzo del greggio al minimo storico di 20 dollari per barile. Una miniera d'oro che unita alle potenzialità della produzione e delle riserve strategiche di un Venezuela filo-Usa e senza più Maduro, come ci mostrano questi grafici porterebbe in dote a Washington un doppio colpo da maestro: l'indipendenza energetica totale e, di più, addirittura lo status di Paese esportatore a livello globale, in un periodo di piena crisi dell'Opec a guida saudita. La sfida del 21mo secolo, ben superiore a quella - per ora vinta - della rivoluzione shale. Il Brasile, contemporaneamente, farebbe respirare il proprio spaventoso deficit e riconquisterebbe il ruolo perduto ormai dai tempi della mitica "B" di Brics.

 

Alla luce di questo scenario, il muro con il Messico appare un mera appendice didascalica delle mire latino-americane dell'amministrazione Trump, alla faccia dello shutdown. E del fin troppo rapidamente defenestrato e rimpiazzato generale Mattis.