Stampa
Categoria principale: Articoli
Categoria: Esteri

Con la sostanziale proscrizione del gigante cinese Huawei, il governo americano ha impresso una drastica accelerazione allo scontro in atto ormai quasi a tutto campo con Pechino. Dopo l’aumento dei dazi sulle merci cinesi, deciso in seguito allo stallo dei negoziati commerciali, l’amministrazione Trump ha piazzato su una “lista nera commerciale” la compagnia di Shenzhen, assestandole teoricamente un colpo quasi mortale ma, allo stesso tempo, innescando una possibile controffensiva che minaccia di produrre conseguenze negative proprio per gli Stati Uniti e le loro aziende tecnologiche.

 

Dopo la mossa di Trump, esperti e commentatori di tutto il mondo si sono interrogati sugli effetti del bando emesso a Washington contro Huawei. Lo stop di Google alla condivisione degli aggiornamenti del sistema operativo Android installato sui dispositivi Huawei, assieme al mancato accesso alle applicazioni disponibili tramite il proprio “store” (“Google Play”), rischia di mettere la compagnia cinese in una posizione di netto svantaggio rispetto alle dirette concorrenti, da Samsung a Apple. L’altro riflesso della decisione presa dalla Casa Bianca è la fine delle forniture di microchip assicurate a Huawei da aziende americane come Intel, Broadcom e Qualcomm.

 

 

Per alcuni, Huawei avrebbe programmato l’acquisto di una massiccia scorta di componenti necessari al funzionamento dei propri prodotti in previsione di un peggioramento della situazione negli USA, così da attenuare gli effetti di un blocco delle forniture che era nell’aria da tempo. Chip e processori potranno inoltre essere acquistati da fornitori di altri paesi, come Giappone o Corea del Sud. Altri, invece, ritengono che Huawei sia fortemente dipendente dal mercato americano per gli approvvigionamenti e il provvedimento dell’amministrazione Trump finirà per causare danni significativi.

 

Quel che è indiscutibile è il carattere provocatorio della messa al bando di Huawei e, come ha scritto il Financial Times in un recente editoriale, la chiarissima intenzione del governo USA di “provare a contenere la crescita cinese”, visti i timori che “le capacità tecnologiche di Pechino finiscano per superare quelle americane”. Huawei è ormai a un passo dal sopravanzare per vendite e, secondo molti, anche per qualità le aziende rivali considerate leader in questo settore a livello globale. Parallelamente, Huawei è di gran lunga l’operatore meglio posizionato per il lancio della tecnologia wireless di nuova generazione 5G.

 

Questi aspetti costituiscono la principale preoccupazione degli ambienti di potere negli Stati Uniti e alla luce di essi si comprende il riferimento alla “sicurezza nazionale” e agli “interessi di politica estera” come giustificazioni per la punizione inflitta a Huawei da Washington. Ufficialmente, il governo americano punterebbe invece a eliminare la presenza della compagnia cinese dal proprio territorio e da quello dei suoi alleati a causa dei presunti legami con il regime di Pechino e, quindi, per evitare che quest’ultimo utilizzi la tecnologia di Huawei per condurre operazioni di spionaggio.

 

La recente decisione americana è comunque ancora più provocatoria e irresponsabile se si considera che arriva dopo il quasi totale fallimento dei tentativi di convincere i governi europei e gli altri partner internazionali a fare a meno di Huawei nella definizione delle rispettive reti 5G e, più in generale, nel reperimento dei componenti necessari alle loro reti di comunicazione. Di fronte alle resistenze degli alleati a scaricare Huawei, l’amministrazione Trump ha deciso di non arretrare in nessun modo, ma di raddoppiare gli sforzi anti-cinesi e promuovere una vera e propria “guerra fredda digitale”, così da ostacolare l’ingresso e la supremazia di Pechino in un settore ultra-avanzato finora dominato da compagnie americane o di paesi alleati di Washington.

 

Se la Casa Bianca ha dunque deciso deliberatamente di aprire questo nuovo fronte, è tutt’altro che garantito che le dinamiche appena innescate si risolvano a favore degli Stati Uniti. Per cominciare, così come le precedenti sanzioni commerciali imposte alle esportazioni cinesi si stanno ritorcendo contro aziende e consumatori USA, anche le misure contro Huawei rischiano di penalizzare in primo luogo proprio il settore tecnologico americano.

 

Con le notizie su Huawei che facevano il giro del mondo, lunedì le azioni dei produttori americani di microchip sono precipitate. Il divieto di fatto di vendere questi componenti alla compagnia cinese priverà infatti Intel, Broadcom e altri di una fetta importante del loro fatturato. Oltre il 14% delle forniture di Huawei provengono dal mercato USA e corrispondono a una cifra annua di circa 11 miliardi di dollari. I posti di lavoro persi negli Stati Uniti potrebbero di conseguenza toccare le 74 mila unità, tanto che l’associazione americana dei produttori di semiconduttori ha già chiesto alla Casa Bianca di allentare le restrizioni appena imposte contro Huawei.

 

Probabilmente anche a causa di queste reazioni, il dipartimento del Commercio USA lunedì ha annunciato un parziale e temporaneo passo indietro. Per 90 giorni, cioè, alcune transazioni oggetto del decreto voluto da Trump potranno continuare, ma ciò non dovrebbe riguardare le esportazioni di componenti come i processori, bensì soltanto la possibilità di garantire la continuità del funzionamento delle reti gestite da Huawei negli Stati Uniti e altrove. All’orizzonte non si intravede comunque nessuna distensione tra le prime due potenze economiche del pianeta e il provvedimento americano finirà quasi certamente per essere implementato nella sua totalità.

 

Il colosso cinese e i suoi vertici sono ad ogni modo preparati da tempo a un evento come quello appena accaduto. In un’intervista ai media cinesi, il fondatore di Huawei, Ren Zhengfei, nei giorni scorsi ha spiegato che era inevitabile e “solo una questione di tempo” il fatto che la sua compagnia diventasse una minaccia agli interessi americani e provocasse ritorsioni. Ren ha poi aggiunto che il bando di Washington non avrà alcun impatto sui piani di Huawei per le reti 5G, visto che i suoi rivali non saranno in grado di concorrere allo stesso livello per almeno due o tre anni.

 

Ren ha ricordato anche come Huawei abbia creato da anni una filiale (HiSilicon) in grado di produrre autonomamente microchip per smartphone e altri componenti proprio in previsione di un embargo di Washington. Già un paio di mesi fa, inoltre, il numero uno della divisione smartphone di Huawei, Richard Yu Chengdong, aveva affermato che la compagnia era arrivata a sviluppare un proprio sistema operativo per telefoni e PC da utilizzare nel caso quelli realizzati negli USA non fossero più stati disponibili.

 

Che Huawei stia andando da tempo in una direzione autonoma e che questa evoluzione sarà accelerata dalla decisione della Casa Bianca è fuori discussione. Resta da verificare, soprattutto sul breve e medio periodo, se, una volta implementati i cambiamenti necessari a superare il blocco americano, i suoi dispostivi saranno ancora in grado di sostenere la concorrenza dei rivali e, ancor più, di mantenere il trend attuale di vendite al di fuori della Cina.

 

Su un piano più generale, sarà interessante osservare le misure che Pechino intende mettere in atto in risposta alla guerra lanciata da Washington. Le armi a disposizione della Cina sono d’altra parte molteplici, nonostante, ad esempio, la bilancia commerciale ampiamente a suo favore esponga una quantità enorme di merci esportate negli USA alle tariffe doganali americane.

 

Le autorità commerciali cinesi hanno comunque già ribattuto ai dazi della Casa Bianca, applicandone di simili alle importazioni dagli Stati Uniti, provocando serie conseguenze soprattutto per agricoltori e allevatori americani. Da almeno qualche mese la Cina si sta anche sbarazzando di quote significative del debito pubblico USA e un ulteriore accelerazione in questo senso potrebbe causare gravi problemi dall’altra parte dell’Atlantico, a cominciare da un pericoloso aumento del rendimento dei titoli del Tesoro a fronte di un indebitamento già di dimensioni quasi impossibili da comprendere.

 

Un’altra arma nelle mani del governo di Pechino di cui si parla poco sui media ufficiali, ma che ha un peso strategico ed economico considerevole, è infine quella delle cosiddette “terre rare” (“rare earths”), un gruppo di elementi chimici fondamentali nella produzione di praticamente tutti i dispositivi tecnologici moderni. Gli Stati Uniti importano circa l’80% del proprio fabbisogno di “terre rare” proprio dalla Cina e un eventuale stop alle esportazioni da parte di Pechino provocherebbe danni inestimabili a molte aziende americane.

 

Questa ipotesi non è stata ancora discussa apertamente dalla Cina, ma a livello non ufficiale continua a circolare in maniera insistente. Il governo cinese vuole probabilmente riservarsi di ricorrere a questa misura estrema nel caso il conflitto con Washington dovesse ulteriormente aggravarsi, visti anche i riflessi negativi che essa determinerebbe sui produttori indigeni di questi elementi.

 

Una recente visita del presidente, Xi Jinping, presso l’impianto di una compagnia cinese che estrae “terre rare” ha però di nuovo alimentato le voci su una possibile imminente mossa in questo senso. Quanto meno, essa ha rappresentato un messaggio chiarissimo per la Casa Bianca circa la disponibilità di Pechino a rispondere colpo su colpo alle iniziative dell’amministrazione Trump.