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Un secchio d’acqua gelata sulla testa. Più o meno questo l’effetto sulla destra nicaraguense della riunione OSA, che non ha votato l’applicazione al Nicaragua della Carta Democratica (che prevede sanzioni e persino la possibile espulsione del Paese che ne viene fatto oggetto). Per quanto l’ostilità della destra continentale verso il governo sandinista sia decisa e sebbene continui il sostegno della parte peggiore di essa al golpismo nicaraguense, non vi sono i numeri sufficienti ad aprire un procedimento contro Managua.

Nell’occasione, pur sostenuti da USA e Canada, Colombia e Cile, golpisti e alleati hanno ottenuto solo una generica - e non vincolante - “esortazione alla ripresa del dialogo tra governo e opposizione”. Esortazione ridicola: il governo è seduto al tavolo quasi un anno e la cosiddetta “opposizione”, divisa al suo interno, si alza e si siede a giorni alterni per dimostrare che esiste. Il tentativo di svolgere un ruolo attraverso ricatti e pressioni dall'estero non funziona: erano e restano irrilevanti per qualunque processo di riforme.

 

Il documento OSA, approvato a maggioranza relativa, pur nella sua insignificanza sostanziale, è comunque un atto di ingerenza negli affari interni di un paese membro e, come tale, è stato condannato da diversi paesi, che ormai individuano nella deriva politica filo-statunitense dell’organismo un indicatore chiaro del possibile generarsi di un processo terminale dello stesso.

L’esito della riunione OSA certifica però per l’ennesima volta il destino frustrante dei chamorro’s, che ormai girano disperati in lungo e largo per il mondo a chiedere sanzioni contro il Nicaragua. Si recano in comitiva con il denaro statunitense e fanno le foto di rito come la scolaresca in gita, ma ogni volta partono pieni di speranza per poi tornare regolarmente disperati.

Ma perché un organismo come gli OSA, certamente orientato a destra nella sua grande maggioranza e notoriamente ostile al sandinismo, non offre fino in fondo il suo appoggio ai nuovi contras?

Vi sono diverse motivazioni ma, sintetizzando, due sono le più importanti. C’è un aspetto di natura politico-giuridica: la maggior parte dei paesi membri non intendono instaurare un precedente di smaccata quanto intollerabile ingerenza negli affari interni di un paese (contravvenendo così lo spirito della Carta fondativa, che invece difende i paesi dai rischi di destabilizzazione violenta). E, se non per ossequio al Diritto internazionale, si oppongono almeno in considerazione che la violazione oggi della sovranità nazionale di un paese potrebbe domani, con diversi equilibri politici, rivolgersi contro chiunque di loro.

Vi è poi una valutazione politica sull’affidabilità dell’oligarchia nicaraguense, che certo non favorisce un sostegno immediato. Proprio per la ricerca maniacale di sanzioni contro il proprio paese il golpismo non ottiene apprezzamento internazionale. La strumentalità delle posizioni dei chamorro’s, che recitano ogni giorno una parte in commedia raccontando di feroci repressioni, trasformano i delinquenti seriali in prigionieri di coscienza e gridano di torture mai esibite, desta ormai più perplessità che affidamento. L’ossessiva campagna di menzogne e l’assoluta inaffidabilità dei personaggi - tra i più compromessi e corrotti della storia nicaraguense - determinano un giudizio fatale in termini di fiducia.

Non rappresentano, insomma, un percorso credibile nemmeno per chi si disferebbe volentieri del governo sandinista, come si evince dalle parole di Luis Almagro, il Segretario Generale degli OSA, che in una intervista ad un giornale colombiano ha ripetutamente elogiato il Presidente Daniel Ortega riconoscendogli, “pur in carenza di risorse, importanti sforzi per il benessere del suo popolo” e dicendosi convinto che “Ortega governa il Nicaragua”.

Potrebbero sembrare ovvietà, data la statura riconosciuta del Comandante Ortega, ma non lo sono: sono un riconoscimento importante che inibisce, di fatto, qualunque procedimento sanzionatorio e che certifica lla validità del cammino verso la riforma del sistema elettorale, in vista del voto, previsto a Novembre del 2021. Che la destra se ne faccia una ragione.

Diversamente da quanto predicano i sacerdoti dell’intolleranza sui media dell’oligarchia, Almagro non è diventato improvvisamente sandinista: ha solo misurato l’inaffidabilità dell’opposizione e l’affidabilità del governo, che mantiene gli impegni presi internamente come internazionalmente e, anzi, si spinge oltre nell’accettare prezzi altissimi da pagare per raggiungere la pace.

E’ chiaro a chiunque che l’odio politico verso il sandinismo s’incrocia con l’odio di classe verso i beneficiari delle riforme strutturali e dell’ammodernamento del Paese. Risulta evidente anche ai loro alleati internazionali che ciò che forma il programma di azione politica della gerarchia ecclesiale e dell’oligarchia è rimettere le mani nelle carni del Paese.

Perché alla fine, di questo si tratta. Il progetto della famiglia Chamorro e dei suoi alleati è quello di riappropriarsi di una nazione ormai trasformata sotto il profilo delle infrastrutture, con una tenuta finanziaria ed un avanzo primario di tutto rispetto, con un livello importante di autosufficienza energetica ed alimentare ed una attrattiva per gli investimenti di buon livello. Il famoso progetto politico dell’Alleanza Civica è tutto qui: rimettere le mani su tutto questo per ricominciare a spolpare il Nicaragua come già negli anni ’90.

E se internazionalmente la loro credibilità è ai minimi, anche all’interno la progressiva perdita di credibilità causa menzogne continuate, l’operare al soldo dell’oligarchia più nefasta e la richiesta di ogni sanzione straniera contro il proprio paese li ha resi agli occhi dei nicaraguensi un prodotto inaffidabile. Anche chi coltiva sentimenti antisandinisti incontra serie difficoltà a vedere nell’accozzaglia della destra un possibile voto utile.

Non è un caso che solo il Gabinetto Trump gli presti ascolto: considerando i personaggi di cui si compone, persino i chamorro’s sembrano dei moderati. Ma il fatto che si applichino sanzioni nei confronti di alcuni dirigenti sandinisti, sembra più il riflesso pavloviano di una amministrazione che si è infilata in un vicolo cieco.

L’errore di valutazione fatto in Nicaragua (come in Venezuela), li ha spinti a scambiare le fandonie delle oligarchie affamate come analisi del quadro socioeconomico; si sono fomentati con i racconti fantasiosi sull’analisi delle forze in campo, alimentati con una narrazione inventata di presunti sostegni maggioritari antigovernativi.

Aver introiettato senza filtrare, essersi identificati con il racconto interessato di una classe indecente, ansiosa solo di succhiare denaro per godersi la vita, ha compromesso seriamente la capacità della Casa Bianca di valutare una linea politica degna di senso.

Non poteva essere altrimenti. Far decidere a Mike Pence, Mike Pompeo, Marco Rubio ed Elliot Abrams l’agire statunitense in America Latina, più che analisi sofisticate ha prodotto suggestioni ideologiche: in fondo, più che un tink-tank, il gruppetto somiglia ad una sgangherata carovana di nazi-evangelici sanguinolenti.

Certo, gli USA ambirebbero ad ottenere lo scalpo di almeno uno dei governi progressisti latinoamericani (e il Nicaragua avrebbe un sapore di rivincita particolare, visti i rovesci subiti dagli USA nella storia); normale dunque che abbiano preparato, finanziato e sostenuto il golpe. Solo che il suo fallimento ha conseguentemente provocato anche il fallimento della Casa Bianca.

 

Il governo sandinista, dal canto suo, ha applicato ogni parte dell’accordo firmato con l’opposizione che, alzandosi e sedendosi al tavolo come fosse un esercizio ginnico, non ha contribuito in nulla al compimento degli accordi, risultando quindi irrilevante per la decisionalità politica nazionale.

Gli amnistiati sono a piede libero e questo causa malumori nello stesso FSLN e nella popolazione che dei delinquenti è stata vittima. Ma sullo scacchiere politico interno ed internazionale l’aver sottratto alla destra la sua più importante arma propagandistica ha fornito ulteriore assegnazione di serietà e credibilità al governo. Quello in fondo che chiedono i nicaraguensi, che nell’affidabilità e saggezza vedono i requisiti indispensabili per riportare il paese sul cammino delle riforme strutturali intrapreso dal 2007.

E non solo il Nicaragua scarcera detenuti a centinaia a norma di Costituzione, che indica nella pena un elemento rieducativo e non punitivo, ma prosegue senza sosta il cammino verso il suo sviluppo. Sono stati appena stanziati i fondi ottenuti con i prestiti internazionali per il nuovo ospedale di Leon, che sarà il più grande del Paese, è stata aperta la strada che collega direttamente la costa atlantica e quella sul Pacifico; otto ore di macchina collegano ora il Nicaragua da un punto all’altro e non è difficile indovinare i possibili ritorni economici e commerciali di tale opera, oltre che l’utilità in chiave di mobilitazione privata e pubblica. Mai nella storia del paese si era immaginato e realizzato tanto.

Un cammino straordinario di successi che attende solo di essere confermato nel 2021, quando le elezioni sanciranno ancora una volta che il sandinismo era e resta l’unica ricetta per il Nicaragua.