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Dopo l’ottavo fine settimana di proteste popolari a Hong Kong, il governo cinese ha deciso lunedì di emettere per la prima volta una dichiarazione ufficiale sulla situazione sempre più delicata nell’ex colonia britannica. Le parole del portavoce dell’ufficio cinese dedicato agli affari di Hong Kong e Macao, Yang Guang, hanno confermato l’estremo nervosismo di Pechino e l’intenzione dei vertici del Partito Comunista di non fare alcuna concessione ai manifestanti, le cui azioni di questi mesi sono state interamente attribuite a interferenze straniere.

A partire da venerdì scorso, vari gruppi di protesta avevano nuovamente attraversato la città registrando una partecipazione che, secondo i dimostranti, avrebbe superato le 300 mila unità. Seguendo una tendenza già mostrata nelle ultime settimane, le manifestazioni sono state portate nei luoghi più frequentati da cittadini stranieri e, soprattutto, provenienti dalla Cina, come ad esempio nell’aeroporto internazionale, in modo da cercare di sensibilizzare e di coinvolgere nella mobilitazione il maggior numero possibile di persone non residenti a Hong Kong.

Com’è noto, le proteste erano iniziate ai primi di giugno con l’obiettivo di costringere le autorità locali, appoggiate da Pechino, a cancellare una proposta di legge che avrebbe introdotto l’estradizione da Hong Kong alla Cina dove, secondo gli oppositori del provvedimento, i diritti legali fondamentali degli accusati non sarebbero stati rispettati. Dopo il ritiro della legge, le manifestazioni non sono però cessate, ma si sono anzi rapidamente allargate a richieste più ampie, collegate alla piena garanzia di diritti democratici, alla lotta contro la corruzione e alle condizioni economiche e sociali della maggior parte della popolazione di Hong Kong.

Il governo di Pechino aveva finora mantenuto una posizione cauta nei confronti di quanto sta accadendo nella metropoli tornata sotto il proprio controllo nel 1997 con la formula di “un paese, due sistemi”. Il contingente militare cinese di stanza a Hong Kong è rimasto perciò nelle caserme, lasciando i compiti di ordine pubblico alla polizia locale, anche se recentemente è stato protagonista di un’insolita esercitazione che in molti hanno giudicato come un avvertimento ai rivoltosi.

Decisamente più esplicito è apparso invece il monito lanciato lunedì da Pechino. Il portavoce dell’ufficio per gli affari di Hong Kong e Macao, come già anticipato, ha espresso la piena solidarietà del governo della madrepatria alle forze di sicurezza della città e ha avvisato che la Cina non permetterà ai tentativi di destabilizzazione in atto di raggiungere i propri scopi. Questi tentativi sarebbero opera di “persone irresponsabili” che, in Occidente, stanno adottando una “strana logica” per cui atti “criminali violenti” suscitano “simpatia e approvazione”, mentre la polizia nello svolgimento delle proprie funzioni viene duramente criticata.

Lo stesso portavoce è andato poi al cuore delle preoccupazioni cinesi quando ha spiegato che le intenzioni di paesi occidentali non meglio precisati sono di “provocare il caos a Hong Kong”, rendendo la città semi-autonoma un problema per Pechino, così da aggiungere un altro tassello alla strategia di “contenimento dello sviluppo cinese”.

La Cina, in sostanza, ha compreso da tempo che nella crisi di Hong Kong è in gioco una parte della propria legittimità a porsi come potenza planetaria in grado di coinvolgere un bacino sempre più ampio di paesi negli ambiziosi progetti di sviluppo economico e commerciale in fase di implementazione. Questa minaccia è chiaramente da ricondurre alle manovre soprattutto americane per contenere la crescita cinese e impedire che il paese diventi un pericolo per la supremazia militare e strategica di Washington in Asia e nel resto del pianeta.

La lettura ufficiale della situazione di Hong Kong da parte di Pechino è dunque prevedibilmente quella di una protesta orchestrata e alimentata da governi stranieri ostili, riconducibile in larga misura al paradigma delle cosiddette “rivoluzioni colorate”. Questa interpretazione è almeno in parte corretta. Infatti, governi e media occidentali stanno dando parecchio spazio alle manifestazioni e assumendo posizioni critiche nei confronti delle autorità filo-cinesi di Hong Kong e dello stesso governo cinese. Ancor più, svariati leader di opposizione e gruppi coinvolti nell’organizzazione delle dimostrazioni hanno legami ben documentati con il governo americano o, più precisamente, con soggetti ufficialmente impegnati nella promozione della democrazia ma in realtà poco più che strumenti della CIA, come il National Endowment for  Democracy (NED).

Nel corso delle proteste di queste settimane si sono potuti osservare ad esempio invocazioni esplicite al ritorno al periodo coloniale britannico oppure manifestanti che sventolavano bandiere americane e chiedevano un intervento diretto di Washington e Londra. In altri casi, poi, sono apparse chiare inclinazioni reazionarie di stampo nazionalista e con toni marcatamente anti-cinesi che, in definitiva, rientrano anch’essi in un disegno, per quanto illusorio, di fare di Hong Kong una sorta di avamposto occidentale alle porte della Cina.

Su un piano più generale, è evidente che gli scrupoli occidentali per il trattamento dei dimostranti di Hong Kong e per le loro aspirazioni democratiche sono a dir poco fasulli. Infatti, è quasi superfluo ricordare come l’indignazione di media e politici in Occidente sia come al solito altamente selettiva e di fatto introvabile in occasione di altre durissime repressioni, come ad esempio nel caso dei “gilet gialli” in Francia o delle proteste contro le brutalità della polizia esplose in varie città americane negli anni scorsi.

Se le interferenze straniere, reali o potenziali, sono indubbiamente un fattore, allo stesso tempo ridurre gli eventi di Hong Kong soltanto a una cospirazione occidentale appare come una scorciatoia per eludere problemi complessi di natura economica, sociale e politica che affliggono la realtà dell’ex colonia britannica.

Anche solo pensare che la mobilitazione di centinaia di migliaia di persone, su una popolazione di circa 7,5 milioni di abitanti, sia il semplice frutto di suggestioni fomentate da Washington appare quanto meno una forzatura. Più di una rilevazione statistica in queste settimane ha evidenziato d’altra parte come la protesta incontri l’approvazione della maggioranza degli abitanti della città. Inoltre, leader politici di opposizione e personalità del mondo degli affari, solitamente collegati agli organizzatori delle manifestazioni o considerati come simpatizzanti di queste ultime, più recentemente hanno essi stessi espresso apprensioni e riserve per un movimento che rischia di mettere a repentaglio la stabilità dell’intero sistema.

Se è fuori discussione che il movimento di protesta contro le autorità filo-cinesi e, in particolare, contro la numero uno del governo di Hong Kong, Carrie Lam, abbia un carattere multiforme e, per certi versi, confuso, le manifestazioni spesso oceaniche affondano in buona parte le radici nelle difficoltà che incontrano milioni di abitanti della metropoli nel soddisfare i propri bisogni primari.

Hong Kong è una delle città con le disuguaglianze sociali e di reddito più profonde di tutto il pianeta e la forbice tra una ristretta cerchia di super-ricchi e il resto della popolazione ha continuato ad allargarsi dopo il 1997. Numerosi studi e reportage giornalistici hanno documentato le difficoltà anche di residenti con un elevato tasso di scolarizzazione a raggiungere un livello di vita appena dignitoso, come dimostra tra l’altro la piaga diffusa delle abitazioni letteralmente di una manciata di metri quadrati in cui molti lavoratori sono costretti a vivere, spesso assieme alle loro famiglie.

Questa realtà vissuta da milioni di persone a Hong Kong contribuisce a spiegare sia la rapidità con cui hanno raccolto consensi le manifestazioni sulla legge dell’estradizione sia l’allargarsi delle proteste ad altre questioni. Queste ultime non sono ovviamente solo quelle economiche e sociali, ma anche politiche nella misura in cui il progressivo assorbimento di Hong Kong da parte della Cina continentale comporta un restringimento o una liquidazione degli spazi democratici per ora garantiti alla città.

I fatti di Hong Kong non sono d’altronde un evento isolato a livello globale, ma si inseriscono in una tendenza fatta di aumentate tensioni sociali che praticamente in tutti i continenti si stanno manifestando con proteste e scioperi contro gli effetti generalizzati della crisi del capitalismo e i tentativi delle varie classi dirigenti di farne pagare le conseguenze ai lavoratori.

In questa prospettiva, le denunce delle interferenze occidentali da parte delle autorità di Pechino nascondono un timore forse ancora maggiore, quello cioè che quanto accade a Hong Kong possa contagiare la Cina, dove le tensioni sociali covano sotto le ceneri e dietro un’apparente solidità di un regime nominalmente “comunista”. Questa paura che attraversa la dirigenza cinese, assieme allo spettro di una “rivoluzione colorata” eterodiretta, rende ancora più minacciose le prese di posizione di lunedì del governo di Pechino, da dove è del tutto possibile sia già in fase di studio un prossimo intervento per riportare l’ordine e la calma nella città ribelle.