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Alla già affollata corsa alla Casa Bianca per il Partito Democratico americano potrebbe a breve aggiungersi un nuovo nome pesante, quello dell’ex sindaco di New York Michael Bloomberg. Il 77enne multimiliardario e fondatore dell’omonima agenzia di stampa si è detto scontento del campo di partecipanti e sembra temere le difficoltà che sta incontrando il candidato democratico “moderato” Joe Biden, insidiato sempre più seriamente da quelli dell’ala “progressista” del partito: Bernie Sanders e, soprattutto, Elizabeth Warren.

 

Bloomberg aveva assicurato ancora lo scorso mese di marzo che non intendeva cercare la nomination democratica, perché il suo ingresso in campo avrebbe molto probabilmente favorito la rielezione del presidente Trump. Gli eventi degli ultimi mesi sembrano però avergli fatto cambiare idea. La coerenza non è d’altra parte tra le qualità del nono uomo più ricco d’America, essendo passato dal Partito Democratico a quello Repubblicano, per poi tornare tra i democratici in seguito a un periodo da “indipendente”, prima, durante e dopo i suoi tre mandati alla guida di New York tra il 2002 e il 2014.

Una decisione finale sulla partecipazione di Bloomberg alle primarie democratiche non è ancora stata presa. Il suo staff ha intanto presentato i documenti necessari a partecipare alle primarie del 3 marzo prossimo in Alabama, lo stato cioè che prevede la scadenza più anticipata in assoluto per la registrazione dei potenziali candidati. In questa data, andrà in scena il cosiddetto “Super martedì”, con in palio una fetta notevole della nomination, dando anche a Bloomberg la possibilità teorica di ottenere un certo sostegno dagli elettori democratici.

Una vera e propria organizzazione a sostegno di un’eventuale campagna non è però ancora stata dispiegata sul territorio e, se a ciò si aggiunge la diffusa ostilità tra gli elettori per figure come Bloomberg, è improbabile che l’ex sindaco di New York possa avere serie chances di successo. In qualsiasi modo, qualunque risultato riuscirà a ottenere, sarà inevitabilmente la conseguenza del denaro che sborserà per auto-finanziarsi.

Le esigue speranze di arrivare a sfidare Trump nel novembre del prossimo anno sollevano il legittimo interrogativo circa i motivi che potrebbero spingerlo a correre per la nomination democratica. Come già anticipato, la tentazione di Bloomberg riflette le ansie della ristretta classe di super-ricchi a cui appartiene, dovute al giudizio sui candidati del Partito Democratico in ascesa, ritenuti non in grado di contenere le esplosive tensioni sociali nel paese.

L’establishment democratico e i poteri forti a cui fa riferimento il partito avevano fino a qualche mese fa scommesso sull’ex vice-presidente Biden, ma proprio il suo lunghissimo curriculum da politico “mainstream” e le controversie relative ai traffici della sua famiglia in Ucraina, alla base della procedura di impeachment contro Trump, minacciano seriamente di far naufragare la sua candidatura. Alcuni recenti sondaggi mettono addirittura Biden al quarto posto nel gradimento degli elettori nei primi due fondamentali stati dove andranno in scena le primarie nel mese di febbraio: Iowa e New Hampshire.

Le difficoltà dell’ex vice di Obama, destinate ad aumentare nei prossimi mesi, sono la conseguenza del radicalizzarsi dell’elettorato teoricamente di riferimento del Partito Democratico e che sta determinando appunto sia l’impennata nei sondaggi della senatrice del Massachusetts, Elizabeth Warren, sia la conferma tra i favoriti alla nomination del collega del Vermont, il “democratico-socialista” Bernie Sanders.

Almeno a livello esteriore, le prime fasi della campagna elettorale tra i democratici stanno avendo al centro del dibattito temi economico-sociali come l’accesso a servizi sanitari a costi ragionevoli se non gratuiti e le gigantesche disparità di reddito negli Stati Uniti. La stessa Warren e Sanders hanno già presentato proposte per la creazione di piani sanitari pubblici universali, da pagare in primo luogo con l’introduzione di nuove tasse sui redditi più alti.

Quella di Elizabeth Warren è stata spiegata nel dettaglio un paio di settimane fa, cioè praticamente alla vigilia della notizia su un possibile ripensamento di Bloomberg circa la sua candidatura alla presidenza. Il piano della senatrice democratica prevede l’applicazione di un’aliquota del 6% sulle ricchezze superiori a un miliardo di dollari, oltre ad altre tasse che dovrebbero colpire le transazioni e i redditi finanziari.

Sul piano sanitario e fiscale della Warren si è subito abbattuta una valanga di critiche e denunce da parte degli americani più facoltosi, a cui hanno fatto eco non pochi commentatori sui media affiliati al Partito Democratico, come il New York Times e il Washington Post del numero di uno di Amazon, nonché uomo più ricco del pianeta, Jeff Bezos.

Come se l’elezione di Elizabeth Warren o Bernie Sanders dovesse innescare niente meno che una rivoluzione socialista, dall’amministratore delegato di JP Morgan, Jamie Dimon, a Bill Gates, fino allo stesso Bloomberg, sono stati in molti a denunciare proposte vagamente progressiste che, a loro dire, “criminalizzano il successo” oppure rischiano di “distruggere la prosperità” degli Stati Uniti. In riferimento a una precedente proposta di tassa del 2% sui redditi sopra i 50 milioni di dollari, avanzata sempre della Warren, Bloomberg qualche mese fa aveva addirittura definito l’eventuale misura “probabilmente incostituzionale”.

L’aspetto più interessante della polemica risiede nel fatto che sia i multimiliardari scatenatisi contro queste proposte sia i loro promotori, a cominciare da Elizabeth Warren, sono perfettamente consapevoli che esse non hanno in pratica nessuna possibilità di essere implementate, nemmeno se nel gennaio 2021 dovesse insediarsi alla Casa Bianca un presidente “progressista” o “democratico socialista”.

Il Congresso di Washington dovrebbe infatti dare la propria approvazione a qualsiasi riforma di questo genere e, al di là della maggioranza che dovesse controllarlo, la priorità dei suoi membri resta sempre e comunque quella dei grandi interessi economici e finanziari del paese. Nel sistema odierno degli Stati Uniti e, ancor più, in una fase segnata dalla crisi strutturale del capitalismo americano e internazionale, è semplicemente impossibile anche solo immaginare l’implementazione di piani di riforma favorevoli alle fasce più basse della popolazione andando a toccare, anche solo in maniera trascurabile, le grandi ricchezze del paese.

Sanders e la Warren, fino a non molti anni fa repubblicana convinta e più recentemente auto-definitasi “capitalista fino all’osso”, sono oltretutto figure perfettamente integrate nel sistema politico americano, tanto da non rappresentare una serie minaccia. Ciò che i miliardari come Bloomberg temono e intendono ostacolare con i loro interventi nel dibattito pubblico o, come nel caso dell’ex sindaco di New York, prospettando un ingresso diretto nella competizione politica, sono piuttosto le aspettative che il diffondersi di proposte progressiste più o meno radicali rischiano di creare tra la popolazione.

Nel concreto, l’eventuale candidatura di Bloomberg, anche se destinata a fallire, potrebbe contribuire a spostare verso destra il baricentro della campagna elettorale del Partito Democratico. Più precisamente, essa servirebbe a cercare di limitare al minimo la discussione sulle disuguaglianze sociali e soffocare sul nascere le speranze di cambiare un sistema di fatto controllato da una vera o propria oligarchia, dirottando malcontento e frustrazioni su temi innocui, come ad esempio la parità di genere, le questioni razziali o la necessità di stimolare la crescita economica “dall’alto”.

Le possibilità che una personalità come Michael Bloomberg sia in grado di raggiungere questo obiettivo sono comunque minime, visti i suoi precedenti. Infatti, al di là di pochi colleghi ultra-miliardari e qualche commentatore, la notizia della sua ipotetica candidatura è stata accolta per lo più con indifferenza o aperta ostilità, visto che, se dovesse alla fine andare in porto, rischierebbe di produrre l’effetto contrario e spingere ancora più a sinistra buona parte dell’elettorato del Partito Democratico.