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Che un politico come Boris Johnson abbia potuto ottenere una vittoria schiacciante per il suo partito nelle elezioni anticipate di giovedì è la prova più clamorosa della profondissima crisi politica e sociale che sta attraversando il Regno Unito alla vigilia di una Brexit ormai praticamente certa. I Conservatori hanno letteralmente devastato lo stato sociale britannico in questi anni, mentre il loro attuale leader ha manovrato, mentito, gettato fango ed eluso le proprie responsabilità. Ciononostante, i “Tories” sono stati in grado di incassare la loro vittoria più pesante da oltre tre decenni a questa parte. Il successo di individui come Johnson non dipende d’altra parte dalla capacità di rispondere agli elettori, quanto dalla fedeltà e dal servilismo nei confronti della classe di cui difendono gli interessi.

 

La performance dei conservatori è andata anche al di là delle più rosee aspettative. Le voci di un possibile recupero del Partito Laburista si sono rivelate invece infondate e, alla fine, Johnson potrà contare su una maggioranza di oltre 70 seggi alla Camera dei Comuni, decisamente sufficiente a mandare in porto la Brexit in tempi ragionevoli.

Proprio la campagna per trascinare la Gran Bretagna fuori dall’Unione Europea dopo mesi di paralisi, scontri politici e trattative inconcludenti è stata la carta vincente dei conservatori. Come temevano in molti tra i laburisti, l’attenzione del dibattito politico nelle ultime settimane si è spostata raramente su temi alternativi, anche se molto più pressanti, come la difesa del welfare e la lotta alle esplosive disuguaglianze sociali, lasciando in larga misura l’iniziativa a un Partito Conservatore che aveva pochi altri mezzi oltre alla Brexit per ampliare il proprio appeal nel paese.

In questo senso, le esitazioni e la sostanziale confusione del messaggio del “Labour” hanno pesato come un macigno, costando al partito di Jeremy Corbyn molti dei distretti elettorali dove la “working-class” è la maggioranza ma che nel referendum del 2016 aveva votato per l’addio a Bruxelles. Nelle elezioni del 2017, al contrario, i laburisti erano riusciti a ottenere un risultato inaspettatamente positivo proponendo un’agenda progressista simile a quella di quest’anno ma con l’impegno di rispettare la scelta della maggioranza pro-Brexit.

Il confondersi della posizione laburista su questo tema aiuta a spiegare anche le altre ragioni principali della sconfitta di Corbyn. Una disfatta che è arrivata nonostante la promessa di una svolta radicale, almeno a livello teorico, sui temi economici e sociali che risulta comunque popolare e necessaria di fronte alla devastazione causata dalla classe dirigente britannica in questi anni sotto la guida dei governi conservatori.

L’ultimo congresso del Partito Laburista aveva ratificato l’inversione di rotta sulla Brexit, con la leadership di Corbyn pressata dalla destra “blairita” fino ad accettare l’ipotesi di un secondo referendum. Questo evento era stato il culmine o quasi delle manovre della fazione anti-Corbyn, sulla quale ricade di fatto la responsabilità maggiore della sconfitta nel voto di giovedì.

La colpa di Corbyn non è stata peraltro minore, visto che da parte sua ha sempre optato per il compromesso interno in nome dell’unità del partito piuttosto che escludere da esso quella sorta di quinta colonna che tramava contro la sua leadership. Il vastissimo sostegno tra gli iscritti e i simpatizzanti del partito, su cui Corbyn poteva contare, gli aveva infatti consegnato un mandato esplicito in questo senso, ma la priorità è sempre stata per lui un’illusoria stabilità interna.

In questo modo, Corbyn non ha ottenuto l’appoggio di tutto il partito, ma ha al contrario dato confidenza all’opposizione interna che ha continuato a tramare contro di lui fino all’ultimo. Oltre alla batosta di giovedì, che consegna il Regno Unito a un nuovo governo conservatore ultra-classista, la fallimentare strategia di Corbyn finirà probabilmente per rimettere il “Labour” nelle mani degli ambienti vicini all’ex premier, nonché criminale di guerra a piede libero, Tony Blair. Il prossimo futuro prospetta così un nuovo ritorno dei laburisti a politiche liberiste e guerrafondaie, con la conseguente ulteriore alienazione della “working-class” e un orientamento ancora più marcato verso la borghesia urbana.

Oggettivamente, Jeremy Corbyn è stato anche vittima di una campagna di diffamazione con pochi precedenti per un leader politico occidentale. Dalle accuse fantasiose di anti-semitismo a quelle di avere legami o essere alla testa di una fantomatica organizzazione estremista marxista, il fuoco sul numero uno laburista è stato incessante in questi mesi. Alcuni settori dello stato, dai militari all’intelligence, avevano inoltre lasciato intendere, nemmeno troppo velatamente, che il suo eventuale ingresso a Downing Street sarebbe stato accolto da un ammutinamento o poco meno. Da Washington, per bocca del segretario di Stato Mike Pompeo, si era arrivati addirittura a ipotizzare una qualche azione per impedire a Corbyn di diventare primo ministro in caso di successo del suo partito nelle elezioni.

Sulle sue presunte tendenze “anti-occidentali” o “filo-russe” si è fatta spesso una campagna disonesta, trasformando la dedizione di Corbyn per il pacifismo e il dialogo nel crimine dell’anti-patriottismo, se non del tradimento vero e proprio. La mobilitazione del Partito Conservatore e della stampa a esso vicina è stata formidabile per screditare Corbyn, tanto da spingere i suoi oppositori a ricorrere a metodi vergognosi, come ad esempio la creazione a raffica di false notizie e la citazione di fonti vicine agli ambienti neo-nazisti per attribuire al leader laburista azioni e comportamenti mai commessi.

Questo impegno straordinario rappresenta forse la lezione più importante del voto anticipato di giovedì. La classe al potere nel Regno Unito e gli ambienti mediatici e pseudo-intellettuali che la servono hanno cioè scatenato un vero e proprio inferno su un politico e un partito che offrivano agli elettori una prospettiva economica e sociale moderatamente riformista, con proposte assolutamente non rivoluzionarie e che solo fino a qualche decennio fa erano considerate la norma per un paese europeo.

Se la reazione contro una minaccia tutto sommato debole per il capitalismo britannico è stata dunque accolta in maniera così feroce, c’è da chiedersi quale sarebbe la risposta dell’apparato di potere – nel Regno Unito e non solo – a una reale mobilitazione dal basso dai contenuti autenticamente “rivoluzionari”. Ciò dimostra, in fin dei conti, come il cambiamento realmente democratico in una simile realtà di crisi avanzata molto difficilmente potrà arrivare dalle urne.

Per quanto riguarda il futuro del nuovo governo Johnson, l’apparenza di stabilità che dovrebbe garantirgli la nettissima maggioranza in Parlamento rischia di essere di breve durata. Il progetto della Brexit dei conservatori favorevoli a essa e usciti vincitori dal voto si basa infatti su un progetto di società ultra-liberista ancora più spinto, ovvero una sorta di paradiso (o inferno) della deregulation finanziaria e del mercato del lavoro. Ciò grazie, in primo luogo, a un futuro accordo commerciale con gli Stati Uniti di Donald Trump, nel quale, come aveva rivelato Corbyn poco prima del voto, sul tavolo delle privatizzazioni integrali ci sarà anche il sistema sanitario pubblico britannico o quello che ne rimane.

Un’evoluzione di questo genere interromperà bruscamente e in fretta la luna di miele tra Johnson e gli elettori, mettendo di fronte quei milioni di votanti tra le classi più disagiate che hanno scelto il suo partito a tutta la brutalità di un nuovo governo conservatore. Quasi a presagire l’esplosione delle tensioni sociali in risposta ai piani in cantiere, Johnson non a caso dopo la chiusura delle urne ha fatto un appello al suo partito a “cambiare”, in modo da “essere all’altezza” di quanto accaduto giovedì.

Le trattative per mandare in porto la Brexit potrebbero inoltre non essere così rapide come promesso. Se la nuova Camera dei Comuni finirà probabilmente per approvare l’accordo già stipulato da Johnson con Bruxelles prima della fine dell’anno, le due parti potrebbero restare legate più a lungo. Tra le varie rivelazioni emerse prima del voto che avevano smascherato le menzogne del primo ministro, ce n’era stata una anche relativa ai tempi della Brexit. Il quotidiano The Independent aveva pubblicato una registrazione nella quale il capo-negoziatore UE, Michel Barnier, smentiva le promesse di Johnson, ipotizzando la conclusione dei negoziati per un nuovo accordo commerciale con Londra non prima dell’anno 2022.

Un altro fronte esplosivo è rappresentato infine dal nodo della Scozia. Qui, lo Scottish National Party (SNP) ha conquistato 48 dei 59 seggi disponibili, stritolando sia i conservatori sia i laburisti e i liberal democratici. La leader Nicola Sturgeon ha trionfato grazie a una campagna elettorale fondata su un secondo referendum per l’indipendenza da Londra e sulla permanenza nell’Unione Europea. Entrambe le questioni sono state sostenute da una spinta decisiva contro l’austerity, con cui viene identificato il governo dei “Tories”.

La numero uno dello SNP ha già annunciato una richiesta formale per un secondo referendum indipendentista prima di Natale. La risposta di Johnson sarà con ogni probabilità negativa, ma, vista la posta in gioco e i cambiati equilibri in Scozia rispetto al 2014, è possibile il profilarsi di uno scontro frontale tra Edimburgo e Londra, nonché una conseguente crisi costituzionale. Boris Johnson, così, potrebbe diventare lo storico leader di un rivitalizzato Partito Conservatore che ha presieduto alla Brexit e, allo stesso tempo, alla disintegrazione del Regno Unito.