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Categoria: Esteri
di Daniele John Angrisani

La prima settimana di passione del Congresso americano sulla questione irachena è finita, come ci si attendeva, con l'approvazione da parte della Camera dei Rappresentanti - 246 voti a favore e 182 contrari alla fine di una discussione molto animata - della risoluzione che boccia la richiesta di aumento delle truppe in Iraq. Un atto non vincolante, ma allo stesso tempo di forte valenza politica. Il Senato non è invece riuscito ad approvare la medesima risoluzione, per una questione procedurale che ha consentito ai repubblicani di bloccare la mozione, nonostante ieri 56 senatori abbiano votato a favore e 34 contro. Questo perché il regolamento del Senato USA, per proteggere i diritti della minoranza, da spesso facoltà all'opposizione di bloccare la discussione ed il voto su una risoluzione, a meno che non vi sia il voto qualificato di almeno 60 senatori su 100, a favore dello sblocco e del passaggio della risoluzione stessa per il voto definitivo nell’aula del Senato, cosa che in questo caso non è avvenuta. I sette senatori repubblicani che hanno votato a favore della richiesta sono invece Norm Coleman del Minnesota, Susan Collins del Maine, Chuck Hagel del Nebraska, Gordon Smith dell'Oregon, Olympia Snowe del Maine, Arlen Specter della Pennsylvania e John Warner della Virginia. Tutti questi, tranne Snowe e Specter, hanno il mandato in scadenza nel 2008 e quindi si trovano dinanzi ad una difficile campagna elettorale per la rielezione, dove qualsiasi passo falso può essere fatale. Da notare comunque il fatto che il senatore Joseph Lieberman del Connecticut, ex senatore democratico, sconfitto alle primarie del partito per via delle sue posizioni troppo filo-repubblicane ma poi rieletto senatore come indipendente alle elezioni di mid-termdello scorso novembre, ancora una volta si è schierato con i repubblicani al momento del voto.

Alla Camera le defezioni nel partito repubblicano sono invece state ancora più marcate, con ben 17 deputati del partito dell'elefante che si sono schierati assieme ai democratici al momento del voto, mentre solo 2 deputati democratici hanno fatto il contrario.

Nonostante la sconfitta procedurale, i democratici hanno lo stesso cantato vittoria. "La maggioranza del Senato degli Stati Uniti è contraria all'aumento delle truppe in Iraq", ha affermato il leader della maggioranza democratica al Senato, Harry Reid del Nevada. "Per quanto riguarda i repubblicani che hanno scelto ancora una volta di bloccare il dibattito e proteggere il presidente Bush da questa ulteriore bocciatura, lasciamo che sia il popolo americano a trarne un giudizio". In ogni caso, ha aggiunto Reid, "Il Senato continuerà a combattere per forzare il presidente Bush a cambiare politica". Nove senatori repubblicani hanno deciso di non partecipare alla sessione del Senato, confidando sul fatto che, essendo tutti favorevoli a Bush, il loro voto non avrebbe potuto in alcun modo cambiare il risultato finale. Tra questi, il più importante è di sicuro il senatore John McCain dell'Arizona, uno dei più quotati possibili candidati repubblicani alla presidenza nel prossimo anno, che è rimasto in Iowa a fare campagna elettorale.

Anche se la risoluzione non è vincolante, il segnale politico non poteva essere più chiaro e palese. E' infatti la prima volta dal 2002 che il Congresso americano si è schierato così apertamente contro la Casa Bianca, in un momento nel quale i sondaggi di opinione mostrano sempre più il malcontento del Paese nei confronti della politica irachena della presidenza Bush. Dalla prossima settimana la vera battaglia si sposta sul progetto di legge presentato dalla Casa Bianca per il finanziamento delle truppe aggiuntive.

La questione è molto delicata in quanto se i democratici votassero contro "tout court", sarebbero sottoposti al fuoco di fila repubblicano che li accuserebbe di non essere "patriottici" e di inviare i soldati a morire per la mancanza dei fondi e quindi del necessario armamento per proteggerli. Ma è proprio sulla questione dell'armamento che i democratici sembrano pronti a dare battaglia: il deputato John Murtha, con l'appoggio della speaker della Camera Nancy Pelosi, ha pronto una serie di emendamenti che, se da una parte garantirebbero alle truppe il necessario addestramento per far fronte alla battaglia, dall'altra appesantirebbe talmente tanto il bilancio militare che, secondo le intenzioni dei promotori, costringerebbero la Casa Bianca a tornare sui propri passi.

Come concordano quasi tutti gli analisti politici americani, la vera battaglia è quindi ancora da venire. Al momento è impossibile prevedere quale possa esserne il risultato. In un momento nel quale la campagna presidenziale americana sembra essere iniziata con quasi due anni di anticipo rispetto alla data del voto, qualsiasi passo falso può essere sfruttato dai due diversi schieramenti politici per tirare acqua al proprio mulino; si può, perciò, essere sicuri che non vi sarà alcun risparmio di colpi sia da una parte che dall'altra. Che poi tutto questo seguirsi di parole e voti, possa servire effettivamente a fermare l'escalation in atto ed anzi avviare un inizio di ritiro delle truppe dall'Iraq, rimane tutto da vedersi.

Come dimostrato sin troppe volte in questi anni, una cosa sono le parole, una ben diversa i fatti, che, purtroppo, languono. L'unica magra consolazione che ci rimane è pensare che, come dimostrato ora anche dai voti del Congresso, il vento stia cambiando e che prima o poi anche la peggiore Casa Bianca della storia americana sarà costretta a rendersene conto.