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Categoria: Esteri
di Daniele John Angrisani

In questi ultimi mesi, in particolar modo dopo la sconfitta repubblicana alle elezioni di mid-term, è divenuto chiaro a tutti che stiamo vivendo in un mondo molto diverso da quello che esisteva anche solo pochi mesi prima. E' difficile valutare, ad oggi, quanti danni possano aver fatto le folli politiche intraprese dall'Amministrazione Bush alla reputazione internazionale degli Stati Uniti d'America, ma ciò che è sicuro è che, in questo lento ma angoscioso tramonto della presidenza Bush, gli Stati Uniti d'America si trovano in una situazione di oggettiva debolezza internazionale che non ha precedenti dalla fine della Guerra Fredda ad oggi. Anche i più strenui sostenitori della "visione imperiale" americana ora sono costretti ad ammettere che, forse, il mondo è più complesso della semplice visione a bianco e nero ("siete con noi o contro di noi") che ha caratterizzato la prima e storia dell'Amministrazione Bush. La verità è che quando persino un uomo proveniente dall'ex KGB, a capo di una Russia che purtroppo, anche a causa dei molti errori dell'Occidente, si allontana sempre di più dai parametri della democrazia europea, si permette di dire dinanzi ai presenti alla Conferenza Internazionale sulla Sicurezza di Monaco, che "il comportamento unilaterale degli USA è tutt'altro che democratico", perchè "democrazia significa il rispetto del volere di tutti" e non "un solo centro di potere, economico, politico e militare", allora significa veramente che la situazione ha raggiunto un punto di non ritorno. Il disastro iracheno, qualsiasi sarà alla fine il suo risultato definitivo (una teocrazia islamica sciita in Iraq? una guerra civile fratricida?), ha già dimostrato a tutto il globo, in maniera sin troppo lampante, che basta una resistenza anche poco organizzata, ma ben fornita di mezzi e soprattutto di volontà, a mettere sotto scacco il più forte esercito del mondo e lasciarlo agonizzare nel deserto. Il risultato immediato di questa vera e propria disfatta, è che sarà molto difficile in futuro per qualsiasi leader americano convincere l'opinione pubblica del proprio Paese ed i generali del Pentagono della necessità di mandare le proprie truppe a combattere una guerra in un Paese lontano, senza motivazioni più che valide. Questo è indubbiamente un bene, sotto molti punti di vista. Ma non dobbiamo dimenticare che questo è anche il motivo principale per cui il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad si permette oggi di sfidare la comunità internazionale sul proprio programma nucleare, ben sapendo che oltre le minacce in questo momento nessuno oserebbe andare. Neppure Israele, in preda ad una delle peggiori crisi politiche della sua storia, con un presidente sotto inchiesta per stupro ed un primo ministro al minimo storico di popolarità dopo la rovinosa campagna militare libanese dell'estate scorsa.

Durante l'"epoca d'oro" di Clinton, l'espressione più forte della potenza americana non era tanto la sua imponente macchina militare o la sua economia trionfante rappresentata dal boom ininterrotto di Wall Street, quanto il cosiddetto "soft power", ovvero la capacità di convincimento da parte americana nella diplomazia internazionale, che aveva avuto, Almeno inizialmente, parte rilevante nel portare arabi ed israeliani, per la prima volta, ad un tavolo negoziale da cui sarebbero scaturiti gli ormai defunti Accordi di Oslo e le relative speranze di pace in Medio Oriente. Era un momento in cui, a torto o a ragione, gli americani erano visti da molti come l'unica potenza mondiale in grado di poter risolvere, se solo l'avessero voluto, anche conflitti decennali rimasti irrisolti dopo la fine della Guerra Fredda, come il conflitto israeliano-palestinese. Oggi invece il segnale lampante del crollo dell'influenza americana in Medio Oriente è stato il raggiungimento alla Mecca di un accordo per la costituzione del nuovo governo palestinese tra Hamas e Fatah, sotto gli auspici del reame saudita e senza alcun coinvolgimento americano. Si è trattato di un colpo con conseguenze pesanti per la capacità della diplomazia americana di contribuire in un modo o nell'altro allo sviluppo degli eventi in Medio Oriente, almeno nel breve termine. Il tutto, ricordiamolo, mentre il presidente russo Vladimir Putin, reduce dal discorso di Monaco, è stato ricevuto con tutti gli onori dai leader della regione, che tornano a vedere nella Russia un partner di cui potersi fidare per controbilanciare la declinante potenza americana nella regione.

Questo non significa che gli Stati Uniti non contino più nulla, anzi è opinione comune che nessun processo di pace possa ripartire se gli USA non faranno pressione a tal senso sul loro principale alleato regionale, Israele. E' indubbio però che le conseguenze della guerra in Iraq sono molto diverse rispetto a quelle che erano sperate da coloro che sin dall'inizio avevano spinto per invadere l'Iraq. Saddam Hussein è morto, impiccato in maniera brutale, e le immagini orrende della sua morte sono state viste da tutti su Internet, ma l'Iraq è lontanissimo dall'essere quel paradiso della democrazia e del libero mercato che i fautori del disastro iracheno volevano farci credere potesse diventare in breve tempo. Il concetto dell'"esportazione della democrazia" mediante le baionette è miseramente fallito come qualsiasi mente dotata di un minimo di raziocinio poteva aspettarsi sin dall'inizio. Questo fallimento ha comportato, anzi, un peggioramento delle prospettive dello sviluppo della democrazia nel mondo, come ammesso anche da “Freedom House”, un organizzazione "non governativa" con stretti legami con la CIA. Per non parlare dell’irrepararabile danno di immagine causato dalle vergognose immagini di Guantanamo e delle torture di Abu Ghraib.

Dunque, riassumendo, siamo di fronte ad un disastro senza precedenti per la politica estera americana e per la reputazione degli Stati Uniti nel mondo.

Ora, con alle porte la lunghissima campagna presidenziale americana, che si concluderà solo nel lontano novembre 2008, si apre un periodo denso di incognite, a seguito del quale il nuovo presidente americano, chiunque esso sia e da qualsiasi estrazione politica egli provenga, avrà indubbiamente un bel da fare per tentare di restaurare, almeno in parte, la credibilità americana nel mondo.
Nel frattempo, quanti altri innocenti dovranno perdere la propria vita in Iraq ed in Palestina, per poter permettere ai politici americani di riempirsi la bocca di buoni propositi che, puntualmente, non saranno rispettati dopo le elezioni?