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Categoria: Esteri
di Fabrizio Casari

Dall’otto al quattordici marzo prossimo, George Bush si recherà in America latina. Missione delicata, che vede come tappe Brasile, Uruguay, Colombia, Guatemala e Messico. A detta di alcuni analisti, il viaggio sembrerebbe voler indicare un ritorno dell’interesse di Washington sul continente, suo antico feudo, ma ormai attuale terreno di sperimentazione della rinascita latinoamericana. Ma se Colombia, Guatemala e Messico sono agli ultimi paesi che gli Usa considerano “alleati fedeli”, nel caso del Brasile il viaggio ha evidenti scopi commerciali e, in Uruguay, la missione del Presidente Usa ha come scopo quello di coinvolgere il governo di Tabaré Vasquez, (il più eterogeneo politicamente, sostenuto da una coalizione che va dai socialisti fino agli ex-Tupamaros) nel tentativo d’isolare Caracas. La Casa Bianca ritiene che le diverse culture politiche della sinistra nel Cono sud possano portare ad una divisione nell’ambito del fronte progressista latinoamericano. Il viaggio di Bush avrà questo obiettivo di fondo: quello di cercare di capire fino a che punto la “sinistra buona” potrà essere allontanata da quella “cattiva”, laddove per “buona” intende quella di Brasile, Argentina, Uruguay e Cile, mentre per “cattiva” intende quella di Venezuela, Bolivia, Ecuador, Nicaragua e, ovviamente, Cuba. La posta in gioco è duplice: tentare di dividere il fronte progressista e ridurre l’ampliamento del Mercosur fermandolo al centro del continente, per impedire al Venezuela di Chavez di entrare con capitali importanti nel gioco economico e nel sistema degli scambi a livello continentale.

“La visita sottolineerà l’impegno degli Stati Uniti con il continente americano”, recita una nota della Casa Bianca, ma sono diversi gli analisti che ritengono il viaggio di Bush un tentativo di recuperare il terreno perso negli ultimi otto anni. Anni nei quali Washington è stata progressivamente emarginata, retrocedendo bruscamente nella sua storica centralità politica continentale. Risultato questo dovuto al continuo insediamento di governi progressisti e di sinistra lungo tutto l’asse continentale; tutti caratterizzatisi per una decisa opposizione alle ingerenze statunitensi come alle politiche neoliberiste e militariste con le quali Washington ha tenuto per decadi intere il subcontinente sotto il suo tallone.

Le spiegazioni di questo fenomeno vengono fornite da diversi angoli di prospettiva: c’è chi ritiene che l’impegno primario degli Usa negli scenari iracheni ed afgani abbia spostato l’asse complessivo della politica estera di Washington dal suo “bacino naturale” continentale. D’altra parte, con una lettura diversa – pur se non opposta – si sottolinea come la sostanziale uscita di scena della Casa Bianca dal continente latinoamericano sia in primo luogo il risultato della sconfitta del neoliberismo. La crisi del monetarismo, dal default argentino in poi, ha spinto ad una inedita quanto efficace alleanza le forze popolari e le borghesie nazionali nell’impresa di ricostruzione socioeconomica dei rispettivi paesi. Una unità dovuta ed elettoralmente vincente, frutto certo di una reazione generalmente concepita come risposta alla “decada perdida”, il decennio degli anni ’90 durante il quale l’America Latina non seppe agganciarsi al treno della crescita generale dell’economia mondiale, approfondendo semmai il solco tra l’esclusione sociale (giunta a sfiorare il 78% di media) e l’accumulo di ricchezza speculativa.

Insomma la fine del conflitto tra Est e Ovest, usato per la militarizzazione del continente a fronte del suo progressivo impoverimento, sancito da dittature militari e povertà estrema da un lato, libertà agli affari ed alle penetrazioni straniere dall’altro, non comportò un riallineamento delle politiche statunitensi di saccheggio e interferenze nel subcontinente che, nel suo rapporto con gli Usa, continuava a esportare ricchezze ed importare ordini.

E appare fondata anche l’analisi che vede nel retrocesso dell’influenza statunitense il tentativo dell’Amministrazione Bush di proiettare sulla scena personaggi e strutture dal passato sinistro; uomini ed organizzazioni che si erano distinti nelle decadi di “guerre al comunismo” che, per il continente latinoamericano, avevano significato bagni di sangue e oscurantismo. Anche nell’indisponibilità all’interlocuzione con personaggi come Otto Reich o John Dimitri Negroponte si è forse cementata la difficoltà di relazioni tra Washington e il subcontinente.

E’ probabile che tutti questi elementi siano il combinato disposto della crisi dell’interventismo statunitense, ma quest’ultimo aspetto è destinato ad assumere ulteriore rilievo. La recente nomina di Negroponte a vice della Rice, si tradurrà in una sostanziale attività di proconsole dell’impero per il centro-sud delle Americhe. Non è un mistero che la linea seguita dalla diplomazia statunitense, dettata da Tomas Shannon, non è condivisa da Negroponte, che predilige invece ferro e fuoco nelle relazioni internazionali.

Shannon, peraltro, ha già chiesto di essere spostato ad altri incarichi proprio per non essere d’accordo con il boia di Tegucigalpa. Proprio Negroponte, infatti, ha già lanciato una campagna di attacchi contro Caracas, contro il cui governo sta costruendo una duplice strategia: pool di brocker finanziari per attaccarlo in Borsa e sferrare colpi alla sua autonomia finanziaria da un lato; organizzazione di un possibile attentato che elimini Chavez dall’altro. Quest’ultimo da realizzarsi con l’aiuto dei terroristi cubanoamericani di Miami che, a quanto risulta all'intelligence venezuelana, sono alla ricerca di grandi quantità di esplosivo. L a stessa intelligence riferisce di piani per l'abbattimento in volo con un missile terra-aria dell'aereo presidenziale venezuelano.

Non è escluso che Bush faccia capire ai suoi interlocutori che intende contrastare a fondo Chavez, Morales e Correa e che non perde di vista la situazione a L’Avana e a Managua. Ma per quanto Brasilia abbia avuto difficoltà con La Paz (come del resto ci sono conflitti tra Montevideo e Buenos Aires) non è detto che troverà orecchie disposte all’ascolto. Meno che mai braccia disposte ad associarsi ai desiderata del suo macellaio preferito o bocche disposte a tacere. E’ più probabile che, dietro le frasi di circostanza che suggelleranno gli incontri, da Brasile e Uruguay riceverà un sostanziale rifiuto.

In fondo, Bush ha già iniziato il conto alla rovescia. Difficilmente l’America latina vorrà fornirgli un respiratore d’emergenza che gli consenta di uscire dalla storia riducendo i danni provocati agli interessi del suo stesso paese e al mondo intero.