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Categoria: Esteri
di Elena Ferrara

Forse un gesto di distensione e, comunque, un passo avanti nel duro dialogo tra Palestina ed Israele. Perché comincia a prendere forma lo scambio di prigionieri fra i palestinesi (che detengono da giugno il caporale Ghilad Shalit) e gli israeliani, nelle cui carceri si trovano oltre novemila palestinesi. Comincia forse – questa la considerazione del momento – a prevalere il confronto diretto tra forze antagoniste. La prima mossa è di Hamas che ha inviato a Tel Aviv una lista di oltre 1.000 detenuti che dovrebbero essere liberati in cambio del caporale. Israele conferma l’arrivo della proposta e precisa di averla trasmessa allo “Shin Bet” (il famigerato servizio di sicurezza interno). La seconda mossa dovrebbe essere quella del Premier israeliano, Ehud Olmert, chiamato a convocare una Commissione incaricata di stabilire se fosse possibile rilasciare o meno anche dei palestinesi che si siano macchiati di attentati gravi, o anche di stragi. Per ora nessuna risposta. Solo commenti brevi e a monosillabi. Ed è questo il punto di maggiore contrasto. Perché gli israeliani considerano ogni atto di protesta contro il loro potere come un gesto terroristico. I palestinesi, dal canto loro, ritengono che debbano essere liberati al più presto alcuni personaggi-leader delle brigate “Ezzedin Al Qassam” come Hassan Salameh, Ibrahim Hamed e Abdallah Barghuti. Nomi estremamente noti (in particolare Barghuti al quale si riconosce la grande capacità di riuscire a mantenere l’unità tra i palestinesi) e sui quali i media israeliani pubblicano in continuazione appelli contro la loro eventuale liberazione. E proprio in questi ultimi giorni le famiglie delle vittime degli attentati terroristici hanno deciso di dare il via a ricorsi presso la Corte Suprema per impedire, appunto, eventuali scambi con le autorità palestinesi.

Ma nello stesso tempo si registrano anche notizie di segno contrario. Sembra che Israele sarebbe disposto a rilasciare 250 detenuti “eccellenti”. Fra questi le più note personalità politiche (come Marwan Barghuti di “Al Fatah”, Ahmed Saadat del “Fronte popolare”, nonché Fuad Shubaki, un ex collaboratore di Yasser Arafat) assieme con palestinesi condannati a lunghe pene detentive.

In questa fase transitoria il caporale Shalit sarebbe affidato alle autorità egiziane, che hanno condotto in questi mesi una estenuante mediazione fra le due parti. La seconda fase prevede la liberazione da parte di Israele di centinaia di donne e di minorenni palestinesi. Solo allora Shalit potrebbe lasciare l'Egitto e tornare a casa. La terza fase, secondo la stampa palestinese, avrebbe luogo in seguito e includerebbe la liberazione da parte di Israele di altri 500 detenuti in quello che sarebbe presentato come “un gesto di buona volontà”. C’è comunque un ostacolo di ordine burocratico in tutta questa vicenda. E cioè la crisi che ha coinvolto il Capo dello Stato israeliano, Moshe Katzav, che si è autosospeso dopo le accuse di molestie nei confronti di donne che hanno lavorato alle sue dipendenze. E appunto prerogativa di Katzav firmare, quando il governo glielo chieda, il perdono necessario per liberare chi sia stato condannato a lunghe pene detentive. Ora, in sua assenza, la prerogativa passa al Presidente della Knesset (Parlamento), ossia a Dalia Yìtzìk, del partito Kadima. E qui esplodono già varie polemiche.

Perché a Tel Aviv ci si chiede se abbia la statura politica necessaria per mettere a tacere l'opposizione nazionalista e rimettere in libertà un personaggio del calibro di Barghuti (il più popolare tra la nuova generazione dei dirigenti palestinesi) , che è stato condannato dal tribunale di Tel Aviv a cinque ergastoli per aver ispirato attentati nella prima fase della intifada.

Sempre per restare nel campo politico di Israele va rilevato che anche in questi giorni la stampa locale insiste nel sottolineare che il "partner" di Israele ai fini di un rapporto istituzionale di pace non può essere l'Anp. Perché non è che una struttura strettamente interinale, temporanea, messa su dal "processo di Oslo" degli anni '90, per amministrare in modo semi-autonomo una parte dei Territori palestinesi, precisamente in attesa che gli organi a ciò competenti concludessero il trattato di pace, per mettere fine al conflitto, dare la libertà ai palestinesi, e tutelare la sicurezza di entrambe le Nazioni.

L'organo competente, per la parte palestinese, lungi dall'essere l'Anp, è, quindi, l'Organizzazione per la liberazione della Palestina, l'Olp. Per la stampa di Tel Aviv è l'Olp, che ha firmato gli Accordi di Oslo, che ha riconosciuto Israele, e che da esso è stato riconosciuto come unico interlocutore competente allo scopo di negoziare e firmare la pace. E' l'Olp che è stato riconosciuto dal mondo arabo e dall'intera Comunità internazionale quale unico rappresentane del popolo palestinese. E' l'Olp – ribadiscono i maggiori commentatori dei media israeliani - che già nel lontano 15 novembre 1988 aveva accettato pubblicamente il principio dei "due Stati" nella ex-Palestina.