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Categoria: Esteri
di Elena Ferrara

La parola “pace” è bandita dal Darfur. Con il tragico scenario del Sudan e del Ciad che riprendono le ostilità. Da Khartum (che alle spalle ha sempre una guerra civile tra Sud e Nord del paese, scoppiata per il controllo dei giacimenti di petrolio e complicate questioni etniche e religiose) giungono notizie sempre più allarmanti (in Darfur si combatte) che riferiscono di un’aggressione armata, in cui almeno 17 soldati sudanesi sarebbero rimasti uccisi dopo un’incursione delle truppe del Ciad. E da N’Djamena – la capitale situata sulle rive del fiume Chari – si ammette l’incursione sostenendo, però, che alcuni reparti dell’esercito erano sì entrati nella regione sudanese del Darfur, ma solo per inseguire un gruppo di ribelli. E sempre in riferimento a questi scontri il Ciad accusa le forze sudanesi di essere intervenute a protezione delle retroguardie dei ribelli del Cnt (“Concordia nazionale del Ciad”). Khartum sostiene invece di avere respinto un attacco nella zona di Khour Baranga, nel Darfur occidentale. E ancora una volta negli scontri – a quanto risulta alle agenzie di stampa - ci sarebbero state ingenti perdite tra i civili. E’ chiaro, quindi, che anche questi nuovi “incidenti” aggravano ulteriormente i già pessimi rapporti tra i due Paesi. Non solo: rimettono in discussione gli accordi per la pacificazione della frontiera comune raggiunti con la mediazione di Libia e Eritrea; e aggiungono poi un ulteriore elemento destabilizzante alla grave crisi del Darfur.

Sulla “questione” interviene ora l'Alto Commissariato dell'Onu per i rifugiati (Unhcr) che presenta i risultati di un'inchiesta sull'incursione condotta dai miliziani arabi Gangawid, una milizia filo-governativa sudanese composta di predoni presentati, in modo leggendario, come "uomini a cavallo armati di carabina". E secondo molte fonti sudanesi sono loro i responsabili delle nefandezze che tormentano la martoriata regione occidentale del Sudan. Intanto dopo gli scontri più recenti, un portavoce militare dichiara che l'esercito di Khartum è pronto a rispondere a quella che definisce un'aggressione armata.

La situazione si fa sempre più complessa e annuncia una nuova fase tumultuosa. Perché la tragedia del Darfur - vero e proprio genocidio - continua. E il conflitto iniziato nel febbraio del 2003 vede contrapposti i Gangawid e la popolazione. Con il governo sudanese che pur negando pubblicamente di supportare le milizie locali fornisce loro armi e assistenza. E sul campo il numero delle vittime è impressionante. Per l’Organizzazione mondiale della Sanità si sarebbe ora a 70.000 morti, ma le Ong parlano di 400mila. E almeno 2.500.000 sono le persone che hanno cercato rifugio nei campi profughi.

Darfur, quindi, come tragedia globale che stravolge e cancella le radici di un popolo. Perché qui il governo non vuole usare l’esercito regolare sudanese (i cui coscritti per il 50% vengono proprio da questa regione) e reagisce armando milizie filogovernative che hanno carta bianca: possono cacciare le etnie ribelli dalle loro case e dai loro villaggi. Il conflitto si sviluppa in maniera brutale con interi villaggi incendiati. Si commettono atti di inaudita violenza, assassinii e stupri. Le milizie distruggono anche il sistema idrico di irrigazione da cui dipende la vita dei contadini, mentre i villaggi “arabizzati” restano intatti.

Il risultato è che oltre un milione di persone si è dato alla fuga. E’ vera guerra civile che è in corso ormai da 20 anni. Vede opporsi il governo settentrionale di Karthum ed i ribelli del Sudan People's Liberation Army (SPLA), che rivendicano l'indipendenza delle regioni meridionali del Paese. Una delle principali motivazioni di questa guerra (oltre a questioni economiche e territoriali) è sicuramente la profonda differenza etnica, sociale e religiosa esistente tra il Nord nazionalista, arabo e islamico ed il Sud nero e cristiano-animista, organizzato in strutture di stampo prevalentemente tribale.

Tale contrapposizione, portata alle estreme conseguenze da rivalità etniche, aveva già condotto le parti a combattersi in un primo conflitto che insanguinò il sud Sudan dal 1955 al 1972, poco prima che il Paese raggiungesse l'indipendenza dall'Inghilterra; le ostilità ebbero inizio quando una guarnigione governativa dell'Equatorian Corps si ammutinò e diede origine ad una lotta armata contro Khartum.

Il conflitto, concentratosi quasi esclusivamente nel sud del Paese, ha colpito in particolar modo la popolazione civile, tra cui si registrano gran parte degli oltre due milioni di vittime; inoltre, in centinaia di migliaia hanno perso la vita a causa delle carestie e delle epidemie connesse con la guerra, mentre altri quattro milioni e mezzo di persone hanno dovuto abbandonare le proprie case e rifugiarsi nei campi profughi locali o dei Paesi confinanti (Uganda e Kenya in particolare).

E’ in atto, in pratica, la distruzione sistematica della intera società locale. Governo e ribelli si sono resi responsabili di gravissime violazioni dei diritti umani; per vent'anni l'aviazione ha bombardato incessantemente i villaggi, colpendo case, scuole, edifici pubblici, mercati e chiese. Le stragi di civili sono state quasi quotidiane, come testimonia l'enorme numero di fosse comuni rinvenute; inoltre, migliaia di persone, soprattutto donne e bambini, sono state rapite e deportate al nord come schiavi. Quanto alle “vere” ragioni del conflitto, va ricordato che negli ultimi anni il tentativo di controllo dei giacimenti petroliferi e delle altre risorse dei territori meridionali ha preso il sopravvento su ogni altra questione, diventando, appunto, il vero motivo della guerra.

Le enormi ricchezze del sud - fra cui, oltre al petrolio, anche acqua, terreni coltivabili, bestiame, minerali, che non si trovano nel nord principalmente desertico - rappresentano da sempre un fortissimo richiamo per la classe dirigente e per i grandi amministratori e proprietari terrieri ad essa legati. Ad aggravare la situazione si è aggiunto l'intervento di influenti multinazionali petrolifere straniere che hanno fomentato la campagna di guerra di Khartum per tentare di conquistare quante più "aree produttive" a sud alimentando, nello stesso tempo, i forti contrasti nazionali. Si è così instaurato un circolo vizioso, attraverso cui il regime ha utilizzato gran parte dei ricavi dell' "oro nero" per acquistare armi sempre più distruttive e prendere il controllo di un numero sempre maggiore di giacimenti.

Centinaia di migliaia di civili sono stati così scacciati o uccisi unicamente per il fatto di abitare nei pressi di campi petroliferi e talvolta, secondo numerose denunce di osservatori indipendenti, le multinazionali non hanno esitato a scatenare i propri eserciti privati sulla popolazione. Intanto a partire dalla fine di febbraio alcune delle etnie locali più rappresentate - a quanto pare sostenute dall'SPLA e da altri Paesi stranieri - hanno cominciato una campagna di lotta armata contro il governo, che a sua volta ha reagito rifiutando qualsiasi soluzione negoziale e replicando agli attacchi.

Da tutte queste considerazioni sorge ancora una volta la domanda sul perché della situazione nel Darfur. Qui – tra le prime cause – c’è quella relativa alla crescente concorrenza per possedere la terra e l’acqua, in una regione colpita fin dagli anni settanta da siccità ricorrenti. Quindi la volontà di Khartum di mantenere il controllo sul Paese, che ha radicalizzato i conflitti attorno alla suddivisione del territorio. La crescente concorrenza per possedere la terra e l’acqua, in una regione colpita fin dagli anni settanta da siccità ricorrenti, è, appunto, una delle ragioni della crisi del Darfur. Questa ha messo a dura prova il fragile equilibrio tra i gruppi, causando la moltiplicazione dei conflitti tra le comunità di agricoltori neri ed i gruppi di pastori nomadi, per lo più arabi.

I conflitti assumono, comunque, l’aspetto di una pulizia etnica sistematica. L’elemento scatenante di questa radicalizzazione è stato la nascita, nel 1987, del “Raggruppamento Arabo”. Composto di "intellettuali" e da capi politici, il “Raggruppamento” sviluppa un’ideologia apertamente razzista, che attribuisce alla “cultura araba" il “compito di civilizzare questa regione”. Il governo, invece di prendere le distanze dai radicali, copre questi sbandamenti razzistici e si appoggia a loro. Così, nel 1994, instaura una nuova divisione amministrativa del Darfur, il cui risultato è stato solo quello di frammentare le regioni abitate dai neri, aumentandone la loro esclusione.

Anche le sfide di politica interna sono una componente di questa radicalizzazione del potere e dimostrano l’esistenza di precisi interessi strategici. Alle elezioni del 1986, durante il breve periodo di democrazia, il Darfur ha in maniera massiccia votato per l’Umma (movimento della comunità dei credenti), attualmente all’opposizione. Questo Partito, come del resto il Partito Comunista, ha influenzato ideologicamente uno dei due movimenti ribelli del Darfur, l’"Esercito di Liberazione del Sudan” (SLA), nato nel febbraio 2003. Ma è soprattutto la volontà del governo di accaparrare le ricchezze del paese a vantaggio di una piccola élite centrale e quindi a scapito delle zone periferiche, che spiega meglio la radicalizzazione del conflitto.

Insistendo sul successo dei negoziati nord-sud e rifiutando inizialmente di considerare l’ampiezza e la profondità della crisi nel Darfur, la Comunità internazionale, con gli Stati Uniti in testa, ha lasciato le mani libere a Khartum per condurre la sua guerra nell’Ovest del paese. Il disastro umanitario attuale sembra finalmente aver fatto uscire questo conflitto dal suo letargo. Anche un paese come la Francia, tradizionalmente vicino al governo sudanese, si aggiunge ormai al coro delle pressioni. Ma per gli abitanti del Darfur buttati fuori dai loro villaggi in seguito alle violenze dei Gangawid è già troppo tardi; infatti dal 2003 il conflitto ha causato lo spostamento di oltre un milione di persone.

I Gangawid non hanno mai smesso di assaltare villaggi, uccidere, violentare, bruciare capanne. E nulla garantisce che il governo sudanese, così abile nel fare dichiarazioni di buone intenzioni, disarmerà poi, come promesso, le sue milizie e lascerà spazio all’organizzazione degli indispensabili aiuti umanitari.

Lo scenario del Sudan-Ciad, intanto, si arricchisce di una nuova pagina. Perché il Presidente sudafricano Thabo Mbeki arriva ora a Khartum nella speranza di convincere le autorità sudanesi ad accettare che la missione dell'Unione Africana dislocata nel Darfur sia affiancata da una forza di pace internazionale. Il Sudan non sembra disposto ad assentire e fonti governative hanno escluso che la visita di Mbeki possa modificare l'attuale linea.