L’ennesima giravolta di Trump sulla guerra in Ucraina ha lasciato commentatori e governi di tutto il mondo nuovamente a chiedersi quale possa essere la “strategia” della Casa Bianca per arrivare a una soluzione negoziata di una crisi che dura ormai da più di 40 mesi. Riproponendo la sua abituale vocazione agli ultimatum, il presidente americano ha ridotto lunedì da 50 a “10 o 12 giorni” quello da poco imposto alla Russia per accettare una tregua, pena una raffica di sanzioni “secondarie” che, però, nessuno o quasi, incluso il governo di Mosca, ritiene realmente applicabili.
Non è da escludere che l’uscita più recente di Trump sia stata stimolata dal successo – o presunto tale – incassato il giorno prima sull’Europa in materia di dazi. Trump ha infatti consegnato alla stampa la sua decisione sull’ultimatum alla Russia sempre dalla stessa location dell’incontro avvenuto con Ursula von der Leyen, ovvero il “resort” golfistico scozzese di sua proprietà, e al termine di un faccia a faccia con un altro vassallo di Washington, il primo ministro britannico, Keir Starmer.
Se è improbabile che quest’ultimo, tra i più feroci sostenitori del regime di Zelensky, abbia avuto una qualche influenza sul cambio di atteggiamento verso la Russia di Trump, è più verosimile che l’ostentazione di impazienza nei confronti di Putin sia il risultato delle crescenti pressioni che i “falchi” negli Stati Uniti, inclusi quelli che affollano l’amministrazione repubblicana, stanno facendo sul presidente affinché si allinei totalmente alle politiche ultra-aggressive del suo predecessore.
Sempre che sia possibile dare un senso logico alle acrobazie pseudo-diplomatiche di Trump, sia l’ultimatum in vigore prima di lunedì sia la nuova scadenza di “10 o 12 giorni” sembrano ad ogni modo collegarsi alle vicende militari sul campo in Ucraina. Il rapido deterioramento della situazione per le forze di Kiev davanti all’avanzata russa richiede cioè tutti gli sforzi possibili per arrivare in fretta a una sospensione della guerra.
Il 14 luglio, Trump aveva avvertito il Cremlino che entro 50 giorni le operazioni militari avrebbero dovuto essere fermate. In caso contrario sarebbero scattati dazi del 100% contro la Russia e, soprattutto, quei paesi che con la Russia continuano a intrattenere rapporti commerciali, principalmente India e Cina. Quell’ultimatum era stato, secondo alcuni, una vera e propria svolta per Trump, che aveva in aggiunta annunciato la ripresa delle forniture di armi a Kiev precedentemente congelate.
La realtà si era mostrata però quasi subito diversa, visto che il programma di trasferimento di armi a Kiev risultava essere più che altro un inganno per favorire i produttori americani a spese dell’Europa. Ma, in ogni caso, queste circostanze segnalavano la fine della pazienza della Casa Bianca verso Mosca. Qualcuno, al contrario, vedeva una conferma della strategia del disimpegno dall’Ucraina di Trump, poiché 50 giorni sembravano un periodo lungo in relazione ai segnali di cedimento dell’esercito ucraino, così che entro la scadenza ci sarebbe stata una nuova situazione che avrebbe favorito la diplomazia. Il meccanismo stabilito per riattivare il flusso di armi americane verso Kiev era inoltre talmente improbabile da risolversi in un nulla di fatto.
Il nuovo ultimatum ridotto inserisce però ora un nuovo fattore, anche se come sempre la stabilità di Trump è pari a zero e il quadro generale potrebbe nuovamente cambiare tra pochi giorni o poche ore. La scadenza di “10 o 12 giorni” comporta in ogni caso una serie di interrogativi e di conseguenze concrete più urgenti per la Casa Bianca e potenzialmente per tutti gli attori che partecipano in maniera diretta o indiretta al conflitto. La domanda cruciale, che già era scattata il 14 luglio dopo il primo ultimatum alla Russia, è cosa accadrà quando, come appare praticamente certo, Mosca avrà ignorato completamente la scadenza imposta da Trump continuando le operazioni militari.
Le sanzioni “secondarie” ai partner commerciali di Mosca sono una questione a dir poco esplosiva, non così quelle che colpirebbero la Russia, dal momento che gli scambi commerciali con gli USA si sono ridotti quasi a zero dal 2022 a oggi. Se dovessero essere applicati dazi del 100% a paesi terzi ci sarebbero conseguenze molto gravi per l’economia mondiale e gli stessi Stati Uniti ne risentirebbero non poco. La Cina potrebbe poi riproporre le ritorsioni già implementate o minacciate nei mesi scorsi durante i vari round della guerra commerciale lanciata da Trump. Il primo pensiero va alle restrizioni all’export delle terre rare, che avrebbe effetti devastanti sull’industria militare e tecnologica americana.
In molti ritengono quindi che Trump non darà seguito a queste minacce nonostante continui a ostentare un atteggiamento di forza come se avesse realmente gli strumenti per influenzare le decisioni di Mosca. Che il presidente americano sia scontento o meno di Putin e che minacci o meno di scatenare l’inferno sulla Russia, le operazioni militari in Ucraina proseguiranno fino al raggiungimento degli obiettivi stabiliti oppure ci sarà un’apertura a un cessate il fuoco se questi stessi obiettivi verranno considerati seriamente da Kiev e dai suoi partner occidentali.
Al di là della retorica che riveste il nulla alla base delle dichiarazioni di Trump, quasi tre anni e mezzo di guerra hanno determinato una situazione per cui né gli USA né l’Europa dispongono di armi per convincere la Russia ad allentare la presa. Anzi, l’insistenza sulle politiche fallimentari perseguite finora, siano esse trasferimenti di armi o sanzioni, non fanno che peggiorare la situazione economica dell’Occidente e quella materiale dell’Ucraina e dei suoi abitanti.
Trump insiste nell’attaccare Putin per la sua indisponibilità ad accettare o discutere uno stop alla guerra nonostante, dal punto di vista del presidente americano, siano state fatte tutte le aperture del caso a Mosca o il ristabilimento di relazioni complessivamente cordiali tra i vertici delle due potenze. Non è del tutto chiaro se Trump non arrivi a comprendere la realtà o intenda continuare a manipolare i fatti per ingannare l’opinione pubblica e far cadere la responsabilità del mancato cessate il fuoco sul Cremlino. Ma resta il fatto che la Russia non si è spostata di un millimetro dalle proprie posizioni e l’unica strada per arrivare alla pace è una discussione seria delle ragioni che sono alla base dell’esplosione del conflitto: dallo stop all’allargamento della NATO verso oriente alla neutralità dell’Ucraina, dalla denazificazione della ex repubblica sovietica alla codifica dei diritti della minoranza russofona, oltre al riconoscimento dei nuovi confini tra i due paesi in conseguenza dei referendum dell’autunno 2022 nei quattro “oblast” ex ucraini annessi dalla Russia.
Quegli “accordi” che Trump pretende di avere raggiunto più volte con Putin e che ancora lunedì ha detto di con comprendere perché non vengano rispettati da Mosca sono quindi una sua fantasia. Non si basano cioè su nulla di concreto, visto che la Russia sa benissimo che la proposta di tregua senza condizioni è un mero espediente per fermare la pressione militare su Kiev così da permettere riorganizzazione e riarmo sulla linea di quanto accaduto con l’inganno degli accordi di Minsk.
Gli stessi colloqui diretti tra Russia e Ucraina, il cui terzo round si è tenuto settimana scorsa a Istanbul, sono puro teatro che il regime di Zelensky usa per far credere di essere disponibile a negoziare mentre vorrebbe ottenere dal tavolo delle trattative quello che ha perso irrimediabilmente sul campo. Al netto della farsa che va in onda quotidianamente dalla Casa Bianca e della disperazione di Europa e Ucraina, una soluzione concordata della guerra resta perciò molto lontana.
Tutto quello che si può ipotizzare per il futuro è la prosecuzione dell’offensiva russa fino al possibile tracollo ucraino o una guerra di attrito prolungata fino a quando Kiev riuscirà a resistere con l’appoggio occidentale. L’esito finale, in quest’ultimo caso, potrebbe essere identico a quello della prima opzione, solo a un costo però molto più alto per tutte le parti coinvolte.