Nel darne l’annuncio domenica, Ursula von der Leyen ha affermato che l’accordo commerciale tra Europa e Stati Uniti “crea certezza in tempi incerti”. Solo questo aspetto, secondo la presidente della Commissione Europea, dovrebbe rassicurare il mondo del business da questa parte dell’Atlantico, ma, in realtà, l’unica certezza che certifica l’intesa annunciata in Scozia nel “resort” di proprietà del presidente Trump è il suicidio economico dell’Europa. Infatti, le reazioni di svariati leader dei singoli paesi dell’Unione e dei rappresentanti delle imprese che esportano negli USA sono state, a parte qualche rara eccezione, nella migliore delle ipotesi caute, mentre alcuni hanno denunciato apertamente un accordo che, per come è stato presentato finora, sembra favorire soltanto Washington.

Le certezze di cui ha parlato la von der Leyen sono inoltre poche, oltre che poco rassicuranti per l’Europa, visto che non pochi aspetti dei termini che dovranno regolare nel prossimo futuro una relazione commerciale da 1.700 miliardi di euro restano oscuri o, ancora peggio, esposti agli umori dell’inquilino della Casa Bianca. In effetti, l’unico elemento positivo dell’accordo sarebbe la fine del clima di incertezza che pesa – o pesava – sul commercio transatlantico, con Trump impegnato a minacciare dazi di varia misura, imporre scadenze e poi rinviarle, lasciando aziende, governi e investitori in un vero e proprio limbo.

Anche questa supposta “certezza” è però altamente discutibile, se non altro perché la docilità mostrata dalla leadership europea lascia esposto il vecchio continente a probabili ulteriori future iniziative americane in quelle che appaiono a tutti gli effetti come le prime fasi di una guerra commerciale globale. La capitolazione europea grazie alla “leadership” von der Leyen ratifica inoltre tre anni e mezzo di politiche autolesioniste che hanno visto in primo luogo distruggere deliberatamente le basi della prosperità economica del continente, vale a dire la disponibilità di energia a basso costo dalla Russia.

La questione energetica occupa d’altra parte un posto importante nell’accordo commerciale appena sottoscritto tra UE e Stati Uniti. Tra le condizioni previste, ha spiegato un Trump comprensibilmente raggiante, c’è infatti l’impegno europeo a importare nei prossimi tre anni “prodotti energetici” americani per altri 750 miliardi di dollari. In ambito puramente commerciale, il disastro del negoziato von der Leyen ha finito invece per triplicare la tariffa doganale media imposta dagli USA per le importazioni dall’Europa, passando dal 4,8% prima dell’insediamento di Trump al 15% concordato in Scozia.

Ma c’è evidentemente di più e di peggio. I dazi al 50% su acciaio e alluminio resteranno tali. La von der Leyen ha parlato di una possibile quota con tariffe più basse, così che il 50% scatterà una volta superata quest’ultima. Trump ha però smentito questa versione e confermato che resteranno in vigore i dazi al 50% senza nessuna quota. Anche sui prodotti farmaceutici non sembra esserci chiarezza. Per l’Europa, che esporta ogni anno in questo settore beni per circa 120 miliardi di euro, si applicherà il 15%, mentre da Washington sono arrivate dichiarazioni contrastanti ed è possibile che una decisione definitiva verrà presa al termine di una “indagine” commissionata dall’amministrazione Trump per verificare se i farmaci debbano essere sottoposti a misure commerciali restrittive per questioni di “sicurezza nazionale”.

In definitiva, secondo la von der Leyen, il business europeo dovrebbe esultare per avere scampato l’applicazione, a partire dal primo agosto prossimo, di una tariffa doganale del 30% su quasi tutte le esportazioni negli USA. I commentatori che hanno accolto con favore l’accordo negoziato dalla Commissione Europea fanno notare a loro volta che questo livello dei dazi sull’export sarebbe stato insostenibile. In realtà, anche il 15%, come ha riconosciuto la stessa von der Leyen, risulterà gravoso per molti settori industriali, a cominciare da quello automobilistico. Oltre poi all’impatto dei dazi altissimi su acciaio e alluminio, il conto complessivo da pagare per le aziende europee dovrà essere calcolato tenendo come minimo in considerazione anche la gravissima decisione di vincolare le forniture energetiche UE agli Stati Uniti.

Molto grave è anche che l’Europa non sia stata nemmeno in grado di applicare a sua volta un solo aumento dei dazi alle importazioni americane, ma abbia anzi accettato di azzerarli. Questa decisione fa il paio con quella di rinunciare del tutto agli strumenti che avrebbero potuto mettere qualche pressione alla Casa Bianca, nonostante fossero stati approntati nelle scorse settimane, sotto forma di pacchetti di dazi su prodotti americani, per un totale di 93 miliardi di euro e che erano teoricamente pronti a essere introdotti il prossimo 7 agosto.

Il fatto che l’accordo sia nettamente sbilanciato a favore di Washington dipende quindi anche e soprattutto dalla fallimentare tattica negoziale europea. Molti paesi avevano preso tempo prima di approcciare Trump dopo il suo annuncio dei primi dazi lo scorso aprile, soprattutto in conseguenza della retro marcia del presidente americano in relazione alla guerra commerciale con la Cina. Resistenze, contro-dazi e altre tattiche avrebbero potuto dare senz’altro qualche risultato. Basti pensare che il Regno Unito, uno dei pochi paesi ad avere siglato un accordo con Trump finora, aveva concordato una tariffa doganale base del 10%, ovvero un livello che gli stessi leader europei avevano all’epoca definito svantaggioso per Londra.

Va anche sottolineato che il nuovo accordo va a completare la disastrosa decisione presa recentemente in sede NATO dai paesi membri europei di aumentare vertiginosamente le spese militari. La von der Leyen ha sottoscritto infatti un nuovo impegno UE a buttare altre centinaia di miliardi di euro nell’acquisto di equipaggiamenti militari dai produttori americani, nel quadro di un piano di “investimenti” europei in America da 600 miliardi di dollari.

Parlando più a favore degli interessi americani che di quelli europei, la presidente della Commissione ha affermato che il deficit commerciale USA con l’Europa andava comunque corretto. Sulla linea della sua connazionale è apparso il cancelliere tedesco Merz, nonostante i leader del business del suo paese abbiano avuto parole piuttosto dure nei confronti delle condizioni sottoscritte in Scozia dalla von del Leyen. Quello che si intravede nell’atteggiamento di quest’ultima e di Merz è il tentativo di offrire la totale sottomissione europea agli Stati Uniti forse per evitare una rottura definitiva sull’asse transatlantico in merito alla fallimentare avventura ucraina e all’offensiva anti-russa.

Se così fosse, la strategia europea è destinata a fallire anch’essa miseramente, visto che per Trump gli alleati del vecchio continente sono solo vassalli da spremere per i propri interessi, come si è visto appunto dai fatti di domenica. Alla situazione che ha portato a questo accordo si è giunti ad ogni modo non solo per l’incapacità dei burocrati europei, nonché dei governi “eletti” dei singoli paesi membri, ma anche e soprattutto per la decisione deliberata di non perseguire a suo tempo – o di perseguire troppo timidamente – le occasioni di sviluppo economico, infrastrutturale e di sicurezza energetica offerte dalle dinamiche multipolari, con al centro in primo luogo la Cina, ma anche la Russia.

Intrecciandosi agli eventi ucraini, le mosse dell’Europa hanno finito per limitare i margini d’azione e vincolare il continente a strategie fallimentari e suicide, che lo hanno tagliato fuori dalle opportunità vere di crescita e costretto a uno stato di inferiorità e dipendenza. Il fatto di muoversi strategicamente in queste nuove direzioni, come hanno fatto in altri continenti altri paesi di gran lunga meno influenti dell’Europa, avrebbe evidentemente messo oggi Bruxelles in una posizione di forza e con strumenti di pressione efficaci da utilizzare in una trattativa commerciale con Washington. Per fare ciò servirebbe però una classe dirigente capace e coraggiosa, nonché determinata a difendere gli interessi europei invece di quelli dei padroni dall’altra parte dell’Atlantico.

Non c’è dubbio infine che la sostanziale resa della von der Leyen sia stata favorita anche dalle divisioni emerse in Europa sulla tattica da tenere nelle trattative con Washington. Alcuni governi, come quello italiano o tedesco, puntavano a un accordo rapido, anche al ribasso, per evitare una guerra commerciale aperta con l’alleato, soprattutto dopo che in questi ultimi anni avevano investito tutto – inclusi gli interessi dei loro paesi – sulla sottomissione alle posizioni e alle priorità strategiche americane.

Altri invece chiedevano un’attitudine più combattiva e la messa in campo dei dispositivi a diposizione dell’UE, come il cosiddetto Strumento Anti-Coercizione (ACI) per rispondere ai provvedimenti decisi alla Casa Bianca. È il caso soprattutto della Francia, il cui primo ministro Bayrou ha condannato senza mezzi termini l’accordo di domenica. Sul suo account X, il capo del governo di Parigi ha scritto di un “giorno nero” per l’Unione, visto che “un’alleanza di popoli liberi, riunito per affermare i propri valori e difendere i propri interessi”, ha finito per concordare la propria “sottomissione” agli Stati Uniti.

In ogni caso, il testo dell’accordo di domenica non è stato finora reso pubblico ed è del tutto possibile che alcuni o molti aspetti risulteranno diversi da come sono stati presentati al pubblico in queste ore o, addirittura, saranno ancora da negoziare. I precedenti delle intese raggiunte da Trump con paesi come Vietnam, Filippine, Giappone o Regno Unito suggeriscono prudenza nel considerare definitivi accordi solo abbozzati. Resta il fatto che Bruxelles è il soggetto che per il momento ha evidenziato la maggiore remissività e, grazie appunto all’inettitudine della sua classe dirigente, è altamente probabile che eventuali aggiustamenti o il riesplodere di una guerra commerciale con gli USA finisca per penalizzare ancora di più la già agonizzante economia europea.

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