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Nonostante gli Stati Uniti si siano nominalmente adoperati negli ultimi tre mesi per evitare un allargamento del conflitto in Medio Oriente, è stato alla fine proprio il governo di Washington a provocare in maniera diretta un’escalation dello scontro bombardando una serie di obiettivi militari nel territorio yemenita controllato da Ansarallah (“Houthis”). La giustificazione ufficiale è la protezione delle rotte commerciali attraverso il Mar Rosso, ma l’amministrazione Biden, assieme a una manciata di alleati, sta invece di fatto proteggendo e favorendo il genocidio in corso a Gaza per il quale Israele è attualmente alla sbarra davanti alla Corte Internazionale di Giustizia.

 

I missili americani e britannici sono iniziati a cadere sullo Yemen subito dopo la risoluzione di censura nei confronti del governo di questo paese approvata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite mercoledì scorso. L’astensione di Russia e Cina ha reso possibile questo esito, che tuttavia riguardava in larga misura la denuncia e la richiesta di cessare gli attacchi degli Houthis contro le imbarcazioni commerciali nel Mar Rosso.

Il diritto alla difesa delle navi da parte dei singoli stati a cui esse appartengono è stato invece puntualmente sfruttato dagli Stati Uniti per scatenare l’ennesima aggressione contro un paese musulmano. Lo Yemen, da parte sua, aveva da subito proclamato l’intenzione di punire lo stato ebraico per l’aggressione nella striscia, oltretutto citando la Convenzione sul Genocidio del 1948, che consente appunto di intervenire per fermare o prevenire un atto di questa gravità.

Assieme a Australia, Canada, Olanda e Bahrein, USA e Gran Bretagna giovedì scorso avevano così lanciato una prima ondata di missili, seguiti da una seconda il giorno successivo che avrebbe tra l’altro colpito un’installazione radar all’aeroporto internazionale di Sana’a. Secondo Ansarallah, la coalizione guidata dagli Stati Uniti avrebbe operato un terzo round di bombardamenti domenica, ma i vertici militari di Washington lo hanno in seguito smentito.

Altre incursioni avranno luogo quasi certamente nei prossimi giorni, anche perché gli “Houthis” non sembrano intenzionati a farsi intimidire. La retorica dei leader yemeniti è stata infatti minacciosa in risposta alle iniziative americane. Domenica, ad esempio, un missile da crociera lanciato dallo Yemen ha preso di mira la nave da guerra USA Laboon nella parte meridionale del Mar Rosso. L’ordigno, secondo quanto riferito dal Comando Centrale americano (CENTCOM), sarebbe stato abbattuto da un caccia senza provocare danni né vittime. Lunedì è circolata la notizia di un attacco contro un nave mercantile di proprietà di una società americana. L’imbarcazione avrebbe subito danni non fatali per poi proseguire la navigazione.

La “missione” contro lo Yemen è la versione ridotta dell’operazione lanciata qualche settimana fa col nome di “Guardiano della Prosperità”, da cui molti paesi, inclusa l’Italia, si erano però rapidamente defilati. La presunta autorità per condurre queste operazioni deriverebbe da una precedente iniziativa destinata a contrastare le attività di pirateria nelle acque oggi oggetto dello scontro con gli “Houthis”. La decisione di colpire obiettivi sulla terraferma in Yemen da parte americana e britannica appare in ogni caso a molti illegale e incostituzionale. Negli USA anche svariati deputati e senatori democratici hanno infatti criticato la Casa Bianca per avere agito senza un voto del Congresso.

L’assenza di una giustificazione legale per l’attacco contro lo Yemen è perfettamente in linea con il disinteresse da parte di Washington e Londra per le norme del diritto internazionale, malgrado i loro ripetuti appelli al rispetto delle “regole dell’ordine internazionale”. D’altra parte, quella appena iniziata è in primo luogo una guerra contro il più povero dei paesi arabi per consentire a Israele di limitare le conseguenze negative della strage di civili palestinesi a Gaza.

Biden e il premier britannico Sunak puntano inoltre a confondere le acque, cercando di dirottare l’ostilità crescente nei loro confronti, causata dal sostegno incondizionato al genocidio palestinese, verso i “ribelli” sciiti nello Yemen, accusati di mettere a repentaglio l’economia globale ostacolando i traffici da e per il canale di Suez. Questo disegno è evidente anche dal fatto che i primi bombardamenti contro le postazioni militari di Ansarallah hanno coinciso con l’apertura delle udienze nel procedimento contro Israele presso la Corte Internazionale di Giustizia a L’Aia.

Oltre a essere illegale, la “missione” guidata dagli Stati Uniti sarà molto probabilmente di scarsa utilità. Molti analisti anche vicini al governo di Washington hanno avvertito che la Casa Bianca rischia di restare intrappolata in un nuovo conflitto senza raggiungere nessuno degli obiettivi prefissati.

Lo stesso New York Times ha scritto nel fine settimana, citando fonti governative, che, nonostante le pretese dei vertici militari USA, i primi due round di missili sul territorio controllato da Ansarallah hanno indebolito solo in minima parte le capacità belliche dello Yemen. Il Pentagono ha sostenuto che i primi bombardamenti avrebbero già avuto un effetto deterrente contro gli attacchi alle navi commerciali nel Mar Rosso. Al contrario, per il Times, gli Houthis conservano tra il 70% e l’80% delle proprie dotazioni militari.

Alcuni analisti militari indipendenti avevano già da giorni spiegato che i problemi per Washington e Londra nell’assestare un colpo efficace agli Houthis sarebbero stati di difficile soluzione. In primo luogo, i missili e i sistemi di lancio di cui questi ultimi dispongono sono in gran parte mobili e possono essere trasferiti in tempi brevi, così da rendere imprecise le incursioni americane, sia pure con tutti gli strumenti di sorveglianza e intercettazione messi in campo.

Inoltre, le navi da guerra degli USA e della Gran Bretagna al largo della costa yemenita hanno risorse limitate che non permettono una permanenza in mare sufficiente a far fronte a un prolungato scambio di artiglieria con gli Houthis. Il rifornimento di missili che si rendesse eventualmente necessario richiederebbe un ritorno in porto, ad esempio a Dubai, lasciando scoperte per un periodo considerevole le vie d’acqua da difendere.

Da calcolare è poi il rischio di un coinvolgimento ancora maggiore nel conflitto degli altri attori riconducibili all’arco della “Resistenza”, motivati anche dall’aggressione contro lo Yemen. Il fronte libanese con Hezbollah rimane molto caldo, così come le milizie sciite filo-iraniane in Iraq non sembrano voler cessare gli attacchi alle basi militari americane in questo paese e in Siria. L’eventuale assistenza agli USA di paesi come Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi o Bahrein rischia infine di provocare una risposta diretta contro questi ultimi da parte di Ansarallah che, nel quadro della guerra scatenata a partire dal 2015 da Riyadh e Abu Dhabi, aveva già in più occasioni colpito impianti petroliferi sul territorio dei suoi aggressori.

La nuova guerra iniziata da Biden potrebbe quindi aggravare il problema che vorrebbe cercare di risolvere, ovvero prospetta una situazione ancora più esplosiva nel Mar Rosso. Una decina di società che operano petroliere hanno ad esempio fatto sapere negli ultimi giorni che eviteranno questa rotta e ciò va ad aggiungersi alla decisione presa svariate settimane fa da alcune grandi compagnie logistiche di optare per la circumnavigazione dell’Africa piuttosto che rischiare il passaggio in direzione del canale di Suez. Tutto ciò comporta evidentemente un aumento sensibile dei costi di trasporto e di assicurazione, che riguarda peraltro solo le entità commerciali israeliane o a esse legate, mentre i traffici riconducibili a Cina, Russia o ad altri paesi del “Sud Globale” possono proseguire indisturbati.

Un’altra preoccupazione che circola anche negli ambienti ufficiali in Occidente ha a che fare con le ripercussioni strategiche dell’iniziativa americana in Yemen. Molti commenti di questi giorni sottolineano come la situazione che si sta delineando assicura agli Houthis una forte legittimazione in Medio Oriente, derivante dalla decisione di agire attivamente in difesa dei palestinesi, al contrario degli altri regimi arabi che hanno denunciato solo a parole l’aggressione sionista.

Un processo favorito anche dall’emergere in maniera sempre più chiara del consueto approccio dell’Occidente, ispirato alla formula dei “due pesi e due misure”. Washington e Londra pretendono in sostanza di difendere le navi commerciali e gli operatori civili che a bordo di esse lavorano bombardando un paese impoverito e devastato da oltre otto anni di guerra, il cui governo di fatto sta cercando di fare pressioni su Israele per fermare il quotidiano massacro di civili palestinesi in corso a Gaza.

Le operazioni militari promosse dagli USA, oltre a risultare nel complesso inefficaci, finiranno così per dare un ulteriore impulso al fronte anti-americano nella regione, a cominciare dal più potente alleato di Ansarallah, ovvero l’Iran, contribuendo anch’esse a ridimensionare l’influenza americana e occidentale in Medio Oriente.